Cinema Romano

Quando ricercai presso l’Archivio Ornato Fabbriche, insieme al sempre disponibile e gentilissimo sig. Luca Dossena, informazioni riguardo un Cinematografo Bios situato, secondo la guida Savallo Fontana del 1925,, in Riparto Bovisa, trovai invece il fascicolo inerente i documenti ed i disegni di un altro cinematografo, sempre nei pressi, di cui mi accingo di seguito a spiegare le vicende edilizie.

Il 18 aprile 1921 fu presentata da parte della Società Edificatrice “Bovisa” una Istanza di Nulla Osta per opere edilizie relativamente alla costruzione di un salone in via dell’Asilo destinato ad ospitare spettacoli vari, a firma dell’ing. Roberto Malagoli. Via dell’Asilo naturalmente non esiste più come toponimo, tuttavia la strada si e coincide infatti con l’attuale via Luigi Mercantini, come si può intuire osservando l’estratto di mappa disegnato nei documenti del fascicolo.

Così viene descritto il progetto nella relazione allegata:

“Costruzione di un salone ad uso ritrovo della Società Edificatrice Bovisa, ad un sol piano, con impalcatura da adibire ad uso conferenze, coperto con tetto a capriate composte, di legno con plafonatura applicata all’armature del tetto.

Pavimento di piastrelle di cemento, muri di cinta racchiudenti la proprietà; di altezza di m. 3 dal marciapiede. I gabinetti da usarsi sono quelli esistenti, nella proprietà confinante che vengono ad essere nella proprietà comune”.

Punteggiatura a parte, il progetto descritto era realmente semplice.

Tuttavia a quanto pare il silenzio prolungato da parte degli uffici comunali dovette indubbiamente preoccupare sia il progettista, che il 2 luglio chiese spiegazioni, sia la committenza, che in data 19 agosto si premurò di inviare la seguente comunicazione:

“Onor. Giunta Municipale Milano

La sottoscritta Società Edificatrice Bovisa, residente in Milano Riparto Bovisa 102, ebbe a presentare da molto tempo il progetto di costruzione di un Salone per ritrovo, teatro, concerti pei propri soci in un appezzamento di  terreno appositamente acquistato a fianco della sua preesistente proprietà; detto progetto di costruzione venne presentato con disegni e firma del Sig. Ing. Malagoli e colla firma del presidente sociale Pelizza Pietro. Non essendo ancora pervenuta l’approvazione e nel dubbio che la mancanza di essa sia causata da un supposto giardino da creare tra il muro di cinta fronteggiante la strada e la facciata del salone, la sottoscritta Società dichiara esplicitamente che il nuovo terreno venne acquistato allo scopo di costruire, appena le condizioni sociali lo permetteranno, un corpo di fabbricato doppio ad uso di civile abitazione prospiciente la strada ed in proseguio a quello attualmente esistente contrassegnato col civico n. 102 e di un corpo semplice appoggiato a quello ora esistente verso la linea del tram in modo che anch’esso diventerà un corpo doppio interno; la divisione del terreno venne studiata in modo che non verranno impedite le suddette costruzioni dalla presenza del costruendo salone.

Rimane perciò esclusa qualsiasi idea di fare un giardino frontale ed in merito all’attuale muro di cinta verso la strada, esso deve quindi venire calcolato come muro provvisorio da sostituire, appena possibile, con regolare fabbricato.

La sottoscritta Società non dubita che dopo le suesposte spiegazioni, l’Onor. Giunta Municipale vorrà accordare colla massima sollecitudine la chiesta approvazione, e, sicura di ciò, anticipa i dovuti ringraziamenti.

firmato Pelizza Pietro,

Milano Bovisa 19 agosto 1921”.

In effetti, la verità risiede probabilmente altrove; il 29 luglio 1921 era infatti già stata notificata all’ing. Malagoli la Rejezione di nuove opere edilizie, che probabilmente non aveva fatto parola alla Società Edificatrice Bovisa della questione, imbarazzante per un professionista:

“Secondo il voto della Commissione Edilizia alla quale questa Autorità si associa, la facciata deve essere migliorata. Inoltre si nota sul tipo prodotto la mancanza di latrine”.

L’elaborata spiegazione scritta dal Pelizza pertanto non coincideva con la realtà dei fatti: secondo la Commissione Igienico-Edilizia la facciata era brutta e non erano state previste le latrine. Tutto qui! 

L’assenza delle latrine era già stata segnalata in una nota, ma forse non comunicata immediatamente, datata 9 maggio, mentre la Commissione Igienico-Edilizia si era già espressa negativamente in data 8 giugno. E’ possibile che vi sia stato un certo ritardo nella consegna della notifica relativa, tuttavia ritengo che la questione fosse abbastanza chiara ed evidente.

In ogni caso, l’ing. Malagoli avrebbe poi modificato il progetto in modo da soddisfare evidentemente la Commissione – latrine a parte, non previste nonostante la richiesta; forse l’ufficio si accontentò delle latrine della stessa proprietà del civico adiacente o chissà…

Il disegno approvato dalla Commissione Igienico-Edilizia il 31 agosto mostra, con lievi modifiche rispetto a quello di giugno, un semplice capannone, la cui facciata non mostra la benché minima riflessione architettonica; tuttavia se penso alle cose che sono accadute in quella sala – incontri, amicizie, amori, litigi, baci furtivi, baci rubati e chissà cosa altro – mi pare che queste siano solo sottigliezze secondarie.

Il salone in ogni caso funzionò anche come cinematografo, noto come “cinema Romano”. Di seguito un estratto dal sito di Giuseppe Rausa a riguardo:

Intorno alla metà degli anni venti è attivo in via Mercantini 13, in zona Bovisa, il cinema Romano.
Il locale – collocato in una bella palazzina dei primi del Novecento con un balcone sopra l’ingresso ad arco – fa parte dell’ondata di aperture di sale rionali avvenuta tra il 1921 e il 1945: si tratta di cinema periferici di terza visione, ubicati oltre la circonvallazione esterna, con una programmazione basata su pellicole estremamente popolari.
La sala ospita anche spettacoli di rivista: si tratta infatti di un cineteatro.
Tra le pellicole più interessanti ospitate dal Romano ricordiamo:
nel 1928:
Koenigsmark (t.o. id, L. Perret, 1923), Teatromania (t.o. Stage Struck, A. Dwan, 1925), L’allarme del fuoco (t.o. The Still Alarm, E. Laemmle, 1926), Il mondo ai suoi piedi (t.o. The World at Her Feet, L. Reed, 1927), Casanova (t.o. id, A. Volkoff, 1926), Russia (M. Bonnard, 1927).

Nel 1931 la sala cambia nome e diviene il Nuovo Cinema Risorgimento; l’indirizzo è ora via Varè n. 23. La nuova titolazione cancella il termine teatro: la rinnovata sala, infatti, elimina varietà e avanspettacolo”.

(Testo di Giuseppe Rausa e Marco Ferrari, http://www.giusepperausa.it/cinema_duse.html)

In effetti la palazzina descritta nelle prime righe è quella di via Varè e non quella di via Mercantini – civico 11 fra l’altro, non 13 – ma ciò che ci interessa è stata la sua trasformazione di vero e proprio cinematografo, probabilmente non limitato ai propri soci.

L’edificio, convertito ad officina già nei primi anni Trenta – con lo spostamento del cinema nella nuova sala di via Varè – era ancora esistente nel dopoguerra; fu poi demolito probabilmente negli anni Cinquanta.

Cronologia

18 aprile 1921: Istanza di Nulla Osta per opere edilizie di un salone.

20 aprile 1921: Verbale di consegna dei punti fissi.

8 giugno 1921: la Commissione Igienico-Edilizia chiede modifiche al progetto.

2 luglio 1921: richiesta di informazioni da parte dell’ing. Malagoli al Comune di Milano.

20 luglio 1921: Rejezione di progetto di nuove opere, notificata il 29.07.1921 all’ing. Malagoli.

19 agosto 1921: Sollecito da parte della Società Edificatrice Bovisa al Comune di Milano intorno all’approvazione del progetto del salone teatro concerto.

31 agosto 1921: Parere favorevole della Commissione Igienico-Edilizia.

8 settembre 1921: richiesta Terza Visita per abitabilità 

17 settembre 1921: Avviso per Nulla Osta d’Opere edilizie.

16 maggio 1922: Relazione di Terza visita per abitabilità.


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Casa Casoli

“Come si osserva dai tipo uniti la casa dovrà sorgere in un area prospiciente uno spazio da considerarsi come corte, larga m. 12.00 per m 7 8 di lunghezza. I due lati in lunghezza potranno in seguito fronteggiate da case a rettifilo le due teste di m. 12.00 invece vengono chiuse da cancelli.

La casa è composta di n. 4 piani con complessivamente n. 32 locali d’abitazione e studio di pittore, oltre le cantine e solai. 

La casa stessa verrà costruita cogli ordinari sistemi adattando i soffitti in parte cementi armati in parte strutture in legno.

Lo scarico delle acque bianche e lorde verrà fatta nella fogna di Via Vincenzo Bellini a mezzo della conduttura privata Ornaghi già approvata da Codesta Onorev. Giunta e quasi costruita”.

La precisa descrizione allegata alla Istanza per opere edilizie, datata 25 febbraio 1904, non rende giustizia a ciò che fu poi effettivamente edificato; nella sua puntigliosa definizione della strada privata, il numero di locali abitabili, i soffitti e le condotte di scarico fognarie, non vi è e non vi può essere alcuna relazione con il “fabbricato”, col suo “prospetto”. Mi chiedo se questa fosse una scelta voluta, quasi un sottolineare la dicotomia insanabile tra ciò che è necessario per la legge e ciò che invece non lo è, oppure solamente un vezzo da parte dell’architetto Campanini, che, oggi, tutti conoscono per la bellezza delle proprie opere sopravvissute.

Non sopravvisse invece questa casa, di proprietà Casoli, localizzata in via privata Vincenzo Bellini 5c – corrispondente all’attuale via Livorno – ed è qualcosa di cui mi dolgo immensamente. Collocata in una posizione meno visibile e meno pubblica rispetto a Casa Campanini, che si trovava invece al civico 11, a fianco di Santa Maria della Passione, sarebbe stato oggi interessante vedere le due case dialogare a poca distanza tra loro: quella sopravvissuta con le sue enormi statue muliebri a fianco del portale, anzi, portale esse stesse, ed invece quella scomparsa, con  la sua facciata davvero floreale, con elementi decorativi tratti dal regno vegetale, non solo nel portale ma anche e sopratutto nel piano nobile, con i suoi alberelli allungare le fronte fino a fondersi con le mensole del piano superiore – ma perché non collegarle anche agli altri balconi sottostanti? Il destino non ha voluto questo confronto, che non sono sicuro avrebbe visto vincitore Casa Campanini; tant’è!

I disegni conservati nel fascicolo presso l’Archivio Ornato Fabbriche non rendono giustizia alla bellezza di ciò che fu poi realizzato: Campanini traccia la piccola casa con mano felice, ma ancora più felice è il suo esito. Se proprio si vuole guardare con occhio critico e meno entusiasta, la ringhiera del terrazzo al piano quarto, arretrato, lunga quanto la facciata stessa, conclude in maniera anomala il volume del fabbricato, che però, da strada, certamente era poco visibile. Insomma, qualche deliziosa incertezza se vogliamo, che oggi mi piacerebbe poter criticare…

I lavori relativi alla sua costruzioni dovettero procedere molto rapidamente, se già il 16 luglio fu eseguita la Prima Visita relativa alle opere al rustico. Qualche problema fu riscontrato con la Seconda visita, per la mancanza di costruzione della fognatura, ma la costruzione fu terminata di fatto dopo un anno, secondo i tempi minimi da Regolamento Edilizio. 

La questione del terrazzo fu risolta, tutto sommato bene, venti anni dopo, con il progetto di una mansarda alla francese al posto della grande terrazza, a firma dell’ing. Leone Posniak, che si limitò a realizzare un sopralzo in stile – ma è meglio provare a non sbagliare che azzardare improbabili confronti con Campanini ma con venti anni di ritardo. 

Così descrisse l’intervento: “si ricorse ad una mansarde per ottenere miglior armonia col resto della casa.

I contorni delle finestre verranno eseguiti in cemento martellinato come i sottostanti.

La travatura delle mansarde verrà eseguita con costoloni in legno e coperta di eternit semicircolari”. Poche parole esattamente come limitato fu l’intervento.

Secondo il Censimento urbanistico del 1946, al posto di Casa Casoli, poi Bonacina, vi era una altra casa, realizzata tra il 1930 ed il 1940; pertanto, come spesso accadde per questo genere di architetture, non vi fu alcuna pietà per esse: via, demolite! Una trentina d’anni di vita però è davvero poca cosa! Ma è pur vero che gli Dèi amano coloro che muoiono giovani.

Cronologia

25 febbraio 1904: Istanza per opere edilizie.

10 marzo 1904: Esame e richiesta di modifiche da parte della Commissione Igienico-Edilizia.

24marzo 1904: Parere favorevole della Commissione Igienico-Edilizia.

28 giugno 1904: Richiesta di Prima visita per le opere al civile.

16 luglio 1904: Relazione di Prima visita per le opere al civile.

16 gennaio 1905: Relazione di Seconda visita per le opere al civile, suppletiva 1°.

27 luglio 1904: Relazione di notifica relativamente ad opere da eseguire.

26 gennaio 1905: Relazione di consegna di mancata visita per assenza di costruzione di fognatura.

20 marzo 1905: richiesta di Terza visita per abitabilità.

31 marzo 1905: Terza visita per abitabilità. 

1 luglio 1924: Istanza di sopralzo.

30 luglio 1924: Parere favorevole della Commissione Igienico-Edilizia.

17 settembre 1924: Denuncia incomplete di opere.

15 dicembre 1924: Richiesta di Prima visita al rustico.

6 gennaio 1925: Avviso di Nulla Osta per opere edilizie.

19 gennaio 1925: Richiesta di Seconda visita al civile.

25 febbraio 1925: Domanda di Nulla osta per l’abitabilità dei locali mansardati.

19 ottobre 1925: Relazione di Terza visita per l’abitabilità.


Villa Nazari

“Onorevole Giunta Municipale

Milano

Coll’appoggio dell’On. Comitato dell’Esposizione, come alla unita lettera del Sig. Vice Presidente Cav. L. V. Bertarelli, e per i motivi in essa esposti;

il sottoscritto, proprietario del villino di cui al tipo in calce, fa rispettosa istanza a codesta On.le Giunta per avere licenza d’abitabilità per il 1° aprile anziché per fine Giugno 1906, previa constatazione non dubbia che tale concessione non può recare il menomo pregiudizio nei confronti dell’igiene, per le ragioni che la On. le Giunta vorrà compiacersi di prendere in esame:

a. il fabbricato formato di tre piani, occupa l’angolo di Via Praga e Viale Piazza d’Armi; è completamente isolato, ha quattro fronti esposte con ampie finestre, ed è interamente cantinato. Trovasi quindi n tal favorevoli condizioni di aerazione e di asciugamento, da potersi garantire in modo assoluto i requisiti più rigorosi di abitabilità.

b. La costruzione venne iniziata fino dall’Aprile 1905, ed al Giugno u.s. già i muri erano eretti e completo il rustico, come si può all’evenienza dimostrare.

Incidentalmente subì qualche indugio la posa del coperto, portando un corrispondente ritardo alla visita municipale di collaudo che ebbe luogo a fine settembre u. s. I muri hanno dunque già beneficiato di tutta l’estate 1905. 

c. Il fabbricato è fornito di apparecchi per riscaldamento, dato il caso si credesse opportuno valersene. 

d. E’ a notarsi che attualmente questo è il solo fabbricato che si erge di fianco alla ferrovia aerea, dopo lo smsitamento e di fronte ad una delle principali entrate dell’Esposizione. E’ quindi a desiderarsi che una costruzione tanto in vista, s presenti decorosamente ultimata, anziché incompleta e rustica in contrasto con la estetica degli edifici fronteggianti della esposizione.

E’ evidente però, che solo nel caso che la richiesta concessione venga accordata, il proprietario troverà interesse di ultimare i lavori in corso per aprile 1906. 

Lo stabile è stato messo a disposizione del Comitato della Esposizione, ed il sottoscritto si dichiara disposto a sottomettersi a tutte quelle disposizioni e misure che codesta On.le Giunta si compiacerà di ordinare onde poter concedere con tranquilla coscienza quanto è sopra rispettosamente richiesto.

Con ossequio,

Devotissimo

Rag. Cesare Nazari

Via Senato 40.

Allegata pianta della località.

Milano, 25 novembre 1905”.


“Onorevole Giunta Municipale di Milano.

Riparto IV.

Il sottoscritto in considerazione della prossima Esposizione avrebbe affitato il proprio Villino in Piazza d’Armi ad un Comitato di Patronesse estere, ed in attesa di regolare licenza di occupazione  domanda all’On. Riparto IV che gli venga concesso il permesso per la collocazione della mobiglia ed attezzi e permanenza temporanea di persone per l’adattamento dei locali.

Ringraziando e fiducioso di essere esaudito,

Devotissimo

Cesare Nazari

Milano li 24 marzo 1906”


Mentre l’ottimo ragioniere Nazari vergava queste umili e sottomesse righe – vere e proprie suppliche di un suddito, che dovremo imparare nuovamente ad applicare nei tempi che verranno, benché condite da qualche velata minaccia – per reclamare ciò che riteneva essere evidentemente un proprio diritto, i milanesi venivano a sapere di un grandioso progetto urbanistico che avrebbe sventrato gran parte del centro cittadino per mettere in diretta comunicazione piazza della Scala con San Babila, a firma degli illustri architetti Luigi Broggi e Nava – l’antenato di quel corso Savoia che sarebbe poi diventato corso del Littorio ed oggi corso Matteotti. 

Ma nella primavera 1906 l’interesse generale non poteva che vertere non tanto su un progetto a lungo respiro – che sarebbe stato concluso trent’anni dopo – quanto piuttosto su quell’Esposizione universale che finalmente stava per aprire i battenti! Possiamo dunque ben comprendere lo stato d’animo che Nazari, dopo aver profuso evidentemente uno sforzo economico piuttosto forte, doveva provare alla vigilia di un avvenimento così importante. Del resto il suo villino, così caratteristico, oltre ad essere stato oggetto di pubblicazioni specializzate, si trovava in una posizione privilegiata, proprio ai margini dell’ex Piazza d’Armi adibita ad esposizione, ed il rag. Nazari realmente pare impegnarsi a fondo per condurre in porto l’operazione, mantenendo ad esempio personalmente i rapporti con i riparti comunali, incombenza di solito eseguita dai capomastri.

Il progetto dell’arch. Carlo Carini , presentato il 17 giugno 1905, mostra una composizione volumetrica caratteristica del periodo, con la compenetrazione di un cubo con una torretta ed un apparato decorativo squisitamente floreale. Grazioso ed ormai raro a Milano il motivo, ripetuto, della trifora con arco della torretta. 

Successivamente fu fatta una nuova domanda per la costruzione del fabbricato ad uso portineria, sempre firmato dall’arch. Carlo Carini, approvato, dopo qualche osservazione dalla Commissione igienico-edilizia, il 5 luglio ed una seconda versione, con piccole modifiche, il 19 luglio.. La prima visita, al rustico, richiesta dal capomastro Ignazio Zanini il 2 ottobre 1905 fu eseguita il giorno 11 ottobre. E’ interessante osservare che il verbale di consegna dei punti fissi porta la data del 21 ottobre, successiva pertanto all’inizio della costruzione il cui rustico era anzi stato terminato; cò è forse dovuto alla necessità di definire il muro di cinta, giacché la costruzione era all’interno del lotto. La seconda visita, al civile, era stata richiesta l’11 febbraio 1906 ed eseguita effettivamente il 20 febbraio. 

Il verbale della terza visita, da parte del delegato d’igiene, porta proprio la data del 24 marzo 1906, la medesima della “supplica” del Nazari. Una seconda visita di abitabilità porta invece la data del  30 aprile 1908, relativamente ad un locale dormitorio per il portinaio, non previsto nei precedenti progetti. 

Le fotografie mostrano una costruzione ad un tempo leziosa e massiccia, per la mole imponente dei suoi tre piani e la torretta quasi centrale, che irrigidisce alquanto il volume. Tuttavia se fosse sopravvissuta ne sarei stato decisamente felice; invece la bella villa del sg. Nazari, fotografata spesso grazie alla posizione invidiabile di fronte alla vecchia Fiera Campionaria, scomparve alle soglie degli anni Cinquanta. 


Palazzo Savonelli

Il cav. Clemente Savonelli, vero e proprio self made man, già impiegato nei Magazzini Bocconi, nel 1887 gestiva un magazzino di confezioni di abiti per uomo e ragazzi in via Torino 2 angolo via Orefici dal curioso nome “Alla Giardiniera”, con filiali a Torino, Venezia e Roma. Casa Rossignol – così si chiamava il fabbricato che ospitava il magazzino, visibile da alcune fotografie e cartoline d’epoca – era destinata a scomparire per allargare la stretta via medioevale come previsto dal piano regolatore, pertanto il cav. Savonelli si propose di creare un magazzino ancora più grande nei pressi di quelli che si sarebbero chiamati i cosidetti “Quartieri nuovi” intorno alla nuova arteria che da piazza del Duomo avrebbe condotto al Castello Sforzesco.

La ditta Savonelli & C. acquistò, tramite la Cassa di Sovvenzione ai Costruttori, i caseggiati compresi tra via San Prospero, Broletto, Mangano e Santa Maria Segreta per un totale di circa 3.000 mq, la cui demolizione avrebbe assicurato 1.200 mq di superficie edificabile; incaricò successivamente l’ing. arch. Franco Bellorini, con studio in via San Primo al civico 4, ed il suo socio l’ing. arch. Ippolito De Strani, per la redazione di un progetto in un lotto di terreno dalla forma triangolare ma col vantaggio di disporre di due lati verso la nuova arteria e verso la vecchia via Broletto. Savonelli chiese in particolare all’ing. arch. Bellorini di recarsi in un viaggio di studio all’estero, Parigi, Bruxelles, Londra e Berlino per esaminare le più moderne strutture dedicate ai grandi magazzini. 

Le costruzioni comprese tra piazza Castello e quella che era stata chiamata “piazza Ellittica”, destinate ad edifici di civile abitazione con uffici e botteghe, su terreni di proprietà della Società di Sovvenzione ai costruttori, furono “assoggettate da parte del Comune di Milano a delle norme di un regolamento edilizio speciale, che determinava la loro altezza in M. 23,00 dal piano del marciapiede alla linea superiore di finimento delle gronde, attici o parapetti” . Il regolamento edilizio speciale, non del tutto conforme rispetto a quello vigente dal 22 febbraio 1889, prevedeva inoltre che il piano terreno fosse alto almeno m 5,00 ed i successivi almeno 3,65 da pavimento a pavimento, con licenza di un piano – normalmente l’ammezzato – alto solamente m 3,00;  inoltre che i cortili avessero una superficie di almeno 70 mq ed il suo lato minore lungo almeno 7 m, con l’eccezione di eventuali cortili di servizio per i qual erano concessi 30 mq con un lato di almeno 5 m e per quelli che non aeravano locali con permanenza di persone, tipo cavedi.

Il progetto definitivo destinava ai grandi magazzini il piano terreno e l’ammezzato, oltre al piano sotterraneo adibito a deposito, lasciando i piani superiori a civile abitazione; questa scelta, relativamente ovvia, richiedeva tuttavia una certa attenzione alla distribuzione delle scale ed alla differenti aperture dei vari piani – più estese possibili per le vetrine del magazzino e più limitate nei piani superiori – per la volontà, caratteristica dell’epoca, di cercare di armonizzare il più possibile le differenze piuttosto che accettarle. Il risultato fu una alchimia di ghisa, vetro e granito, che a tratti può apparire macchinosa ma non priva comunque di una certa eleganza, lodata anche da re Umberto I durante la visita ai lavori a Milano il 30 maggio 1889 . L’ingresso principale fu collocato nel prospetto d’angolo verso la “piazza Ellittica” in modo da creare due gallerie, una verso via Broletto e l’altra verso quella che sarebbe diventata via Dante. Il cortile centrale sarebbe stato coperto da un velario in vetro di forma ellittica sotto il quale avrebbero collocato una aiuola di piante e fiori a simboleggiare il nome del Grande Magazzino. 

Il cav. Savonelli avrebbe voluto inaugurare il nuovo grande magazzino per il 1° maggio 1890 “per solennizzare il decimo anno del suo primo impianto a Torino” , ma dovette aspettare fino alle ore 20 di domenica 11 maggio per l’inaugurazione; credo che tuttavia fosse comunque soddisfatto giacché “una squadra di 40 guardie di P.S. a stento otteneva di regolare l’entrata nello stabilimento” e verso le ore 21 “la ressa era tale che là dentro che per qualche minuto restò materialmente impedita la salita e la discesa dal pur non angusto scalone” . 

Il sig. e signorina Savonelli accompagnarono per l’edificio le personalità più eminenti che erano intervenute: il sindaco Belinzaghi, il duca Visconti di Modrone, il principe Trivulzio, il marchese Stanga ed altri personaggi dell’aristocrazia milanese, oltre ad architetti, artisti e professionisti, ai quali fu regalato per ricordo un piatto di porcellana con l’immagine del palazzo. 

Il fabbricato fu poi esaminato il 16 aprile 1892 dalla apposita Commissione destinata a giudicare le nuove costruzioni erette in via Dante, secondo il concorso deliberato dal Comune di Milano in data 29 marzo 1889: la Commissione avrebbe dovuto valutare la bellezza architettonica, il decoro della costruzione e “la razionale corrispondenza delle parti esterne colle interne” . Gli edifici esaminati furono in totale solamente quattordici, in quanto alcuni non erano ancora stati completati. Il fabbricato fu giudicato insieme al prospiciente palazzo de “La Fondiaria”, dei medesimi architetti, in maniera ambivalente: “se l’idea artistica non è sempre felicemente trovata, nè sviluppata, si rivela sempre l’opera di costruttori valenti, specialmente nella soluzione di ardui problemi statici” .

Per un beffardo caso del destino – la serendipità mi ha sempre affascinato, lo ammetto – il cav. Clemente Savonelli morì nella sua villa al lago di Como, alle ore 9 del 12 maggio 1896, quasi nell’anniversario dell’inaugurazione dei suoi magazzini in via Dante, a causa di una “paralisi progressiva” . Tuttavia le cronache del tempo, forse distratte per la disfatta di Adua, che calamitò l’attenzione nazionale, dedicarono scarsa attenzione alla sua scomparsa.


Via Pisacane 4

Il villino di via Carlo Pisacane 4 è rappresentato nella Tavola n. 37 della Raccolta “Le costruzioni moderne in Italia – Milano”, e ad essere sincero mi risulta poco comprensibile la scelta di pubblicare quest’opera, tutto sommato non particolarmente significativa, per tralasciarne altre molto più interessanti dello stesso periodo – a meno di non voler, in qualche modo, illustrare “anche” il genere del villino economico e popolare caratteristico del primo decennio del Novecento.

Il 30 marzo 1903 – ma la scritta a mano è di difficile lettura – la Soc. Coop. Case ed Alloggi presentò domanda di Licenza per opere edilizie in via Carlo Pisacane, per la costruzione di un villino a firma dell’ing. Ettore Cislaghi. La Commissione igienico-edilizia esaminò ed approvò il villino il 16 aprile, e già il 21 giugno fu richiesta la Prima visita per le opere al rustico, che fu effettuata senza problemi particolari il 3 luglio seguente. Del resto i disegni mostrano un progetto piuttosto semplice, sia in pianta sia in alzato, che non deve aver costituito un problema per il capomastro durante la sua costruzione: un piccolo fabbricato a due piani, scandito da campate regolari e finestre in asse, di cui una binata, ed accesso laterale al lotto. 

La costruzione fu portata a termine nel giro di un anno – leggasi la cronologia riportata successivamente  – data la semplicità e l’assenza di rilevanti particolarità strutturali o tecnologiche. Vi è tuttavia una questione interessante da chiarire, ma che qui possiamo solo introdurre: il progettista del piccolo fabbricato è l’ing. Ettore Cislaghi, come risulta dal fascicolo edilizio conservato presso l’Archivio Ornato Fabbriche di Milano, oppure l’arch. Galeazzo Salmoiraghi, come risulterebbe alla  tav. 37 della raccolta “Le costruzioni moderne in Italia – Milano” ? La semplicità, sia pure dignitosa, del villino non richiederebbe, apparentemente, la presenza di un architetto; questa considerazione, unita a ciò che riportano “le carte”, sembrerebbe indicare come corretta l’attribuzione al firmatario del progetto ing. Cislaghi; tuttavia lasciamo aperta una porta nel caso si scoprisse una collaborazione professionale o un intervento da parte dell’arch. Salmoiraghi.

La casa oggi non esiste più; esiste tuttavia una sua, piccola, testimonianza: il cancello di ingresso, che è stato conservato nella sua posizione originaria.

Cronologia

30 marzo 1903 [poco leggibile]: Istanza di Licenza per opere edilizie.

16 aprile 1903: Parere favorevole Commissione igienico-edilizia.

21 giugno 1903: Richiesta di Prima visita per le opere al rustico.

3 luglio 1903: Relazione di Prima visita per le opere al rustico.

5 agosto 1903: Richiesta di Seconda visita per le opere al civile.

27 ottobre 1903: Seconda visita suppletiva I° per le opere al civile.

11 novembre 1903: Seconda visita definitiva per le opere al civile.

14 novembre 1903: Relazione di visita suppletiva per assenza di costruzione di fognatura.

26 novembre 1903: Richiesta di Seconda visita per le opere al civile.

7 marzo 1904: Richiesta di Terza visita per abitabilità.

16 marzo 1904: Terza visita per abitabilità.


Il villino Braga Bacigaluppo

Villino Braga e Bacigaluppo

Viale Umberto 23-25.

“Il caratteristico gruppo di villette costruito su un reliquato tra il viale Monte Grappa e i Bastioni di porta Nuova si sta demolendo in questi giorni. Niente da rimpiangere, neanche dal punto di vista dell’estetica; è da augurare però che gli uffici comunali abbiano fatto giustizia dei progetti di grattacieli che si pensava di costruire sull’area resa libera. In quella posizione una casa molto alta costituirebbe certo una bruttura”.

(Corriere della Sera, 23 ottobre 1937).

Nessun rimpianto! Non sia mai! Accorrete rapidi a prendere un piccone – demolitore, ca va sans dire – a distruggere il “caratteristico” gruppo di villette per lasciare il posto – si spera – a una “non bruttura” – che, obiettivamente, è il massimo livello a cui possiamo aspirare dal basso del livello di incivile decadenza che abbiamo – per ora – raggiunto. Per fortuna non la pensavano così i redattori de “L’Edilizia Moderna” del numero di settembre del 1908 – così poco, già, durò il Villino Braga! – che oltre ad evidenziare la qualità architettonica delle due opere così vicine tra loro – genero e suocero – ricordavano anche le difficoltà di realizzarle proprio sopra il Cavo Redefossi. 

Il piccolo lotto, dalla forma di un trapezio irregolare, ospitava in uno spazio ristretto sia il Villino Bonsignore – il più grande del gruppo – sia il Villino Braga, con, in mezzo alle due proprietà, un fabbricato adibito a “rustici”, ovvero scuderie, magazzini e locali per la servitù. Se in pianta la distribuzione non risulta particolarmente interessante, altro discorso è per gli alzati: l’architetto cav. Ernesto Quadri, il progettista delle due costruzioni, riuscì a realizzare una costruzione notevole, piacevole alla vista, equilibrata sia pure nelle ricche decorazioni: se l’ing. Roberto Gandini si occupò delle problematiche strutturali al di sopra del Redefossi, l’arch. Quadri collaborò con altri artisti del tempo per realizzare quella che voleva essere la massima espressione di ricchezza possibile per un medio borghese, agiato e ansioso di condividere il proprio status con la città intera.

Le vicende del villino Braga si intrecciano profondamente con quello del suo più grande – ma non di molto – vicino, il villino Bonsignore. Infatti per entrambi i villini fu richiesta istanza di licenza edilizia lo stesso giorno, il 12 dicembre 1905: progettista il medesimo architetto Ernesto Quadri e direttore delle opere ing. Riccardo Gandini. Così furono descritte le opere:

“Villino a due piani con solai sottotetto destinati ad abitazione. Il piano terreno si trova rialzato di m. 1.60 sul piano del marciapiede stradale. Murature costruire con mattoni mori forti [sic]. Impalcature con orditura di poutrelles e gettate di cemento. Tetto alla piemontese con tegole piane nere. Decorazione esterna eseguita in pietra artificiale di cemento. Pavimenti parte in piastrelle di cemento e parte a parquets. L’annessa piccola scuderia verrà costruita secondo le norme di un retro riguardo [illeggibile]. Pavimento delle scuderie in [illeggibile] metallico”.

Il genero faceva costruire un villino con scuderie accanto a quello del suocero in un lotto di forma irregolare e difficile da gestire in assenza di buoni rapporti di vicinato, date le distanze limitate e le scuderie di fatto in comune tra loro. La prima versione del progetto, non allegata al fascicolo, fu respinta il 27 dicembre 1905 dalla Commissione Igienico-edilizia: “La decorazione esterna dovrà venire ristudiata con intento di maggiore sobrietà”. Ed è un peccato non poter eseguire un confronto tra questa e la seconda versione, i cui disegni allegati, bellissimi per qualità ed estremamente interessanti, mostrano un corpo di fabbrica quadrangolare nel quale si innesta su un lato la consueta torretta panoramica e sull’altro la scala scenografica dal quale avveniva l’ingresso principale. L’alzato è dominato da un tema principale collocato su tutte le finestre del piano nobile: due figure femminili – vestite, forse memori delle recenti storie intorno a quelle seminude di Palazzo Castiglioni in corso Venezia – che tendono le braccia l’una verso l’altra al di sopra dell’architrave, in un ricco sfondo floreale. Tema forte, carico di impatto, forse riferito proprio alla moglie di Luigi Braga, di cognome Bacigaluppo, che fu poi realizzato in “tono minore” ma sempre carico di simbolismo: altre finestre infatti sono sormontate da figure maschili a torso nudo. La “coppia” insomma viene celebrata in un tripudio amoroso…

In ogni caso, questi disegni piacquero alla Commissione che il 28 febbraio 1906 diede finalmente parere favorevole al progetto. I lavori tuttavia con ogni probabilità dovettero iniziare da subito, se già il 27 marzo successivo fu fatta richiesta per la Prima visita relativa alle opere al rustico; è vero che il villino era di dimensioni contenute, ma dal punto di vista strutturale avrebbe dovuto affrontare una difficoltà non usuale, ovvero costruire le fondazioni al di sopra della copertura del Redefossi, mediante un arco in muratura. Comunque la Relazione di Prima visita porta la data dell’11 maggio 1906 ma con esito incompleto, in quanto le scuderie non erano ancora state terminate; la Relazione definitiva fu eseguita il 18 luglio successivo. 

Fu probabilmente in questa fase che si decise di ampliare il piano primo del villino, in modo da armonizzare obiettivamente la copertura ed il corpo scala. Tale variante richiese tuttavia una nuova istanza, datata 28 novembre e nuovo parere favorevole, del 5 dicembre 1906, da parte della Commissione igienico-edilizia. La Seconda visita fu eseguita anch’essa due volte, come da cronologia che riporto successivamente. I lavori terminarono pertanto nella primavera del 1907.

Le fotografie esistenti testimoniano un villino grazioso e pieno di carattere, portatore di una ventata Art Nouveau poco diffusa in realtà a Milano, dove si prediligeva uno Stile Floreale più piano e disteso. Gli elementi decorativi del villino sono invece abbondanti, carichi ed enfatici, come le alberature collocate sugli spigoli della torretta, elemento visivamente e concretamente centrale del fabbricato.

Il villino fece bella mostra di sé, insieme al suo compagno villino Bonsignore, per una trentina d’anni presso Porta Nuova, dialogando efficacemente con essa e costituendo un terminus visivo caratteristico. Se fosse stato conservato costituirebbe oggi una testimonianze eccellente del periodo floreale italiano, oggetto di interesse e studio per esperti, appassionati e semplici turisti: il destino ha voluto invece che fosse sostituito nel 1938 da uno scatolone moderno privo di qualsiasi qualità che non fosse quella economica.

Cronologia

  • 12 dicembre 1905: Istanza di Licenza per  la costruzione di un villino e stabile per scuderia.
  • 27 dicembre 1905: Parere con note della Commissione igienico-edilizia.
  • 28 febbraio 1906: Parere favorevole della Commissione igienico-edilizia.
  • 27 marzo 1906: richiesta di Prima visita per le opere al rustico.
  • 11 maggio 1906: Relazione di Prima visita per le opere al rustico, suppletiva I°.
  • 18 luglio 1906: Relazione di Prima visita per le opere al rustico, suppletiva ultimo.
  • 28  novembre 1906: Istanza di licenza per la costruzione di un villino e stabile per scuderia.
  • 5 dicembre 1906: Parere favorevole della Commissione igienico-edilizia.
  • 14 dicembre 1906: richiesta di Seconda visita per le opere al civile.
  • 5 gennaio 1907: Relazione di Seconda visita per le opere al civile, definitiva 1°.
  • 9 marzo 1907: Relazione di Seconda visita per le opere al civile, suppletiva ultima.
  • 9 marzo 1907: richiesta di Terza visita di abitabilità.

Casa Castoldi, via Trebbia 27

Il rettangolo di cielo che ci era concesso.

La luce filtrava dalla tenda che mio padre aveva collocato sulla finestrella posta verso la scala comune della casa e illuminava, con un rettangolo più chiaro, la parete della mia camera; che, poi, camera non era, giacché era un vano di ingresso, piuttosto grande, privo di finestra se non quella verso la scala e senza alcuna porta se non quella di ingresso: un corridoio? Un ingresso?  Un vestibolo? Chiamatelo come volete, io dormivo proprio lì. Lì avevo il mio letto, i miei armadi, la mia libreria, i miei giochi di bambino. Quel disimpegno, se così vogliamo chiamarlo, era il luogo dove trascorrevo la maggior parte della mia giornata non scolastica durante i mesi invernali – in primavera ed in estate giocavo per ore e ore, instancabilmente, nelle “vasche” di via Crema o lì nei pressi comunque.

Il disimpegno poi si restringeva a tal punto da renderlo realmente solo un corridoio, dove era collocata una grande stufa, che non era in grado di scaldare adeguatamente il piccolo appartamento. A sinistra si apriva poi il tinello, con una rientranza ove vi era un tempo il camino ed un piccolo balcone verso l’angusto cortile, unico affaccio verso l’esterno. Il bagno era lungo e stretto – ma non così tanto da non poterci collocare una vasca da bagno – ed infine vi era la camera da letto, il locale più grande della casa. In quella stanza il sole batteva un poco di più e mi piaceva vedere i raggi entrare dalla finestra, passare le tende ondulate e mostrare in controluce il pulviscolo che galleggiava in aria.

La casa aveva quindi solamente una parete verso cortile, e per giunta verso nord-ovest: al primo piano dove eravamo noi, di fatto, il sole non c’era quasi mai. Pure, mi piaceva stare di fronte anche alla finestra della cucina e guardare il rettangolo di cielo che ci era concesso: conoscevo ogni particolare delle case che ci chiudevano come in un recinto, le piante dei cortili – in quello in basso della nostra casa c’era un grande caco che ogni anno buttava decine di frutti di cui, all’epoca, ero ghiotto – costruzioni produttive e artigianali a me sconosciute.

Uscendo dal balcone era possibile quasi, allungando la mano, toccare quella di chi viveva nell’appartamento a fianco, che, molto più grande ed illuminato del nostro, costituiva un po’ il “piano nobile” della casa senza ascensore. Quando ero bambino viveva una signora già anziana col marito, che familiarmente io chiamavo “tata”, anche se non era mai stata effettivamente una balia per me, ma più una sorta di nonna. Si chiamava Rosa, ma si faceva chiamare Rosetta: classe 1914, faceva la sarta per una piccola clientela di signore, arrotondando la pensione del marito; lui si chiamava Carlo, ma lei, con squisito dialetto milanese, lo chiamava Carlini, anzi, in terza persona “il Carlini”. Lui era classe 1910, era nato in viale Bligny 42, dove c’era e c’è ancora un grosso caseggiato popolare, e percorreva instancabilmente avanti e indietro tutte le strade del quartiere che aveva l’incrocio tra via Crema e via Piacenza il proprio epicentro: sei o sette strade in tutto, il “confine” immateriale poteva essere individuato in viale Sabotino e corso Lodi da una parte, via Ripamonti ad est e viale Toscana a sud. 

Il Carlini lo si poteva incontrare ad ogni ora del giorno – prima delle 12 e dopo le 15 – con un sacchetto sottobraccio, o la baguette, o una copia de “La Notte”, andare e venire dalla casa alla bottega alla quale era diretto e poi ancora a casa e poi via verso una nuova bottega: non amava evidentemente riempirsi di borse, preferiva camminare, tornare a casa quel tanto per lasciare la piccola spesa e poi via di nuovo verso altri acquisti quotidiani: il latte, la carne, il prosciutto. A quel tempo Porta Romana era una sequenza quasi ininterrotta di ogni genere di negozio, alimentare e no: sarebbe stato possibile camminare entrambi i marciapiedi di via Crema ed effettuare quella che oggi sarebbe una spesa tipica da supermercato.

La mia casetta di via Trebbia 27 era una delle più piccole e meno belle del quartiere: genericamente liberty, va bene, ma non reggeva il confronto con le grandi, belle, finemente decorate, rivestite con maioliche fiorite, di via Crema e via Piacenza – e ai miei tempi non esisteva già più la villa del Sommaruga! Pure, ci ero affezionato a quelle tre finestre per piano, a quei balconi, a quelle colonnine, a quei colori beige e marrone. 

Lì ho vissuto dalla fine di dicembre del 1974 fino al dicembre 1989.

Cronologia

  • 30 settembre 1910: protocollo di domanda di nulla osta per opere edilizie.
  • 17 ottobre 1910: consegna dei punti fissi.
  • 25 ottobre 1910: rejezione di progetto di nuove opere per altezze non regolamentari.
  • 4 novembre 1911: Commissione igienico-edilizia.
  • 6 maggio 1911: domanda di modifiche alle opere edilizie (dotazione di botteghe al piano terreno)
  • 24 maggio 1911: Commissione igienico-edilizia variante
  • 9 giugno 1911: avviso per nulla osta di opere edilizie
  • 31 luglio 1911: domanda di Prima visita
  • 1 agosto 1911: Prima visita al rustico (prot. 99502/6723 Rip. IX) – anomalia data.
  • 6 settembre 1911: Prima visita (prot. 99502&6723 Rip. IX)
  • 30 dicembre 1911: domanda di Seconda visita.
  • 30 dicembre 1911: Seconda visita al civile (prot. 165326/11448 Rip. IX) – anomalia data.
  • 12 marzo 1912: domanda di Abitabilità.
  • 25 marzo 1912: Seconda visita al civile.
  • 25 marzo 1912: domanda di Terza visita straordinaria di abitabilità.
  • 9 giugno 1912: Terza visita per abitabilità.

Il 30 settembre 1910 il capomastro Natale Castoldi, dimorante in via Pasquale Sottocorno 37, presentò domanda di nulla osta per opere edilizie da realizzarsi in via Trebbia, nel tratto compreso tra via Crema e via Adige. Il progetto risulta firmato dall’arch. Ugo Gattermayer, con residenza al civico 24 di via Macedonio Melloni, anche se è molto probabile che il capomastro, nella doppia veste di proprietario ed esecutore dei lavori, dovesse in realtà svolgere un ruolo decisivo anche per quanto riguardava le questioni progettuali. La descrizione che accompagna la domanda è piuttosto scarna anche secondo i canoni dell’epoca: “casa d’abitazione civile composta del piano terreno rialzato tre piani superiori ed il quarto arretrato dalla gronda di n. 3.00”. Nessun cenno relativamente alla distribuzione, del resto piuttosto semplice in quanto limitata a due soli appartamenti per piano, né alle caratteristiche costruttive e tecnologiche, che comunque dovevano essere piuttosto semplici e coerenti con strutture murarie in mattoni pieni.

Il progetto dell’arch. Gattermayer prevedeva la costruzione di un fabbricato stretto e lungo, approssimativamente ad “L”, con un piccolo cortile, non di uso comune, relegato ad una piccola porzione del lotto. La prima versione del progetto prevedeva un piccolo appartamento ad uso portineria diurna e notturna ed i soprastanti quattro piani adibiti ad appartamenti d’affitto. Se la facciata verso via Trebbia presenta una composizione equilibrata e gradevole, ritmicamente gradevole pur nella sua limitata estensione, decisamente più povere sono le facciate verso il cortile. Il verbale dei punti fissi fu eseguito il 17 ottobre successivo e l’impressione che ne si ricava è che quel tratto di via Trebbia fosse ancora inedificato: la mappa toponomastica comunale del 1914, qualche anno più tardi, mostra tuttavia come esistenti anche altri fabbricati, che forse erano già in progetto o in esecuzione proprio intorno al 1910-1911. 

Approvato il progetto da parte della Commissione igienico-edilizia il 4 novembre successivo, i lavori iniziarono con ogni probabilità piuttosto presto, considerando che spesso durante il mese di gennaio o febbraio la neve ed il freddo intenso riducevano le ore di lavoro effettivo. Il 6 maggio 1911 fu presentata domanda di variante alle opere edilizie: al posto della portineria diurna e notturna – tutto sommato forse eccessiva per un fabbricato di dimensioni limitate come questo – furono previste due botteghe, modificando sostanzialmente il prospetto verso via Trebbia. La domanda di Prima visita, relativa alle opere al rustico, fu richiesta solamente il 31 luglio ed eseguita il 6 settembre 1911 (al riguardo è presente un documento nel fascicolo edilizio che riporta per errore le date di domanda al posto di quelle effettive di visita): un lasso di tempo decisamente lungo per una costruzione modesta come quella in esame, che lascia supporre qualche ritardo nella esecuzione. La Seconda visita, al civile, fu richiesta il 30 dicembre ed eseguita solamente il 25 marzo 1912, mentre la visita per l’Abitabilità, la terza, fu eseguita il 9 giugno 1912. Rimane il fatto che la piccola costruzione fu, carte alla mano, costruita nel corso di oltre venti mesi di lavoro, quasi due anni: un periodo di tempo troppo lungo: una comunicazione da parte del capomastro Castoldi lascia supporre che forse furono “dimenticate” alcune domande di vista, ma ciò appare difficile da credere a dire il vero. 

Si concludono così i lavori di via Trebbia 27 – che però, per qualche lustro, ebbe come civico il numero 8, giacché la numerazione dell’intera strada fu ribaltata completamente. 


La demolizione dei Bastioni di Porta Nuova

Lavori di demolizione dei Bastioni di Porta Nuova, tardo inverno 1931 (Collezione Cronache Edilizie Milanesi)

“Il tratto dei bastioni compreso tra via Principe Umberto e il corso di porta Nuova sta per scomparire; e con esso sarà pure demolito il sottopassaggio di via Principe Umberto. Il nuovo piano regolatore contempla, come è noto, sull’area del sottopassaggio, la creazione di un ampio piazzale, sul quale il traffico proveniente dalla nuova stazione si potrà comodamente smistare.

L’esecuzione di questi lavori doveva essere subordinata all’approvazione del piano regolatore; ma, poiché questa è stata ritardata dalle note vicende burocratiche, il Capo del Governo ha dato disposizioni perché il Comune proceda senza indugio all’inizio di queste opere, la cui esecuzione assorbirà una massa notevole di mano d’opera e potrà essere opportunamente fatta nella prossima stagione invernale”. (“La demolizione dei bastioni di Porta Nuova”, nel “Corriere della Sera” del 27 novembre 1930).

“Sono stati iniziati i lavori destinati a far sparire nello spazio di pochi mesi quel tratto dei bastioni che va dal sottopassaggio di via Principe Umberto al corso di Porta Nuova. In questi primi giorni si tratta di opere preparatorie alla demolizione; squadre di giardinieri e di manovali del Comune vanno rimuovendo gli strati erbosi dei prati, sradicando cespugli e abbattendo alberi. Tutta la vegetazione che può essere estirpata senza determinarne la morte andrà ad adornare altre zone cittadine sistemate a verde; gli alberi annosi sono condannati a ridursi in ceppi da ardere.

Finito questo lavoro preliminare si comincerà l’asportazione della terra: la vera demolizione che importerà la occupazione di parecchie centinaia di operai. Fino da ora peraltro lavoratori in piccola folla, particolarmente venuti dal contado, taluni armati degli arnesi del mestiere, sostano sul luogo di attesa e con la speranza di essere ingaggiati. Con essi si soffermano anche gruppi di contadini i quali non sanno celare un senso di inevitabile rammarico nostalgico. Per ora s’è cominciato ad attaccare la valletta e il declivio che sovrasta la roggia corrente lungo l’area dell’ex carcere di via Parini [roggia Balossa]: un angolo dalla vegetazione rigogliosa che per tutta la buona stagione dava ombra e frescura”. (“L’inizio dei lavori sui bastioni di Porta Nuova” nel “Corriere della Sera” del 2 dicembre 1930).

“I vecchi platani del bastione di porta Nuova cadono uno dopo l’altro. Condannati a morte senza processo, in omaggio alle trionfanti necessità dello sviluppo cittadino, i platani vengono giustiziati in fretta, come per tema che qualcuno possa sorgere a invocarne la grazia (…).

Par d’essere alle porte di una città sconosciuta. E nuova veramente è destinata ad apparire ivi Milano quando sarà spianato tutto, demolita la stazione di stile infranciosato, rasi al suolo i bastioni e naturalmente travolto anche quel cavalcavia del Balzaretti definito “elegante” dalle guide anche non molto vecchie. Se ne ricaverà “la più grande piazza di Milano, forse d’Italia e probabilmente dell’estero” come è stato detto, che avrà le sue linee tranviarie, le sue aiuole, i salvagente e sperabilmente una fontana. Sarà il grande vestibolo di Milano per coloro che arriveranno in ferrovia, e nessuno ricorderà più le vecchie, care, tranquille e provincialesche cose che furono cancellate per poter spalancare quel grande ingresso d’onore. Tanto meno i vecchi platani dei bastioni di porta Nuova, che se ne vanno senza clamore”. (“L’uccisione dell’albero” nel “Corriere della Sera” del 18 dicembre 1930).

“La demolizione è compiuta per oltre una metà: giacché dei complessivi 115 mila metri cubi di terra costituiti dalla massa del bastione ne sono già stati asportati 65 mila. Attualmente sono addetti a questi lavori 200 carri a cavalli e 65 autocarri, che compiono in media cinque viaggi al giorno, asportando quotidianamente oltre 1100 mc. di terra. Si può così arguire che per la fine di maggio non solo quasi compiuto, ma anche la rampa di raccordo col bastione di porta Venezia sarà terminata”. (“Una rassegna delle opere pubbliche in corso” nel “Corriere della Sera” del 26 marzo 1931).

La demolizione dei bastioni fra Porta Nuova e via Manin fu appaltata alla ditta “Figli di Giovanni Marzoli” per la rispettabile cifra di un milione di lire.

L’allargamento di via Arcivescovado (gennaio-aprile 1930)

“Dall’altro ieri è cominciata la demolizione dell’ala destra dell’edificio prospiciente l’abside del Duomo; edificio che, come è noto, dovrà essere ridotto alla sola parte centrale, quella che include la chiesetta dell’Annunziata e che reca sul fastigio la decorazione del grande orologio. La parte per ora in demolizione è quella che corrisponde alla via Arcivescovado ed è appunto per allargare questa via che scompare una costruzione che non si sarebbe certo potuta condannare, come è invece il caso di tanta altra edilizia del centro, per la sua decrepitezza. Perché i lavori di abbattimento siano più rapidi è stata ieri addirittura preclusa al transito tutta la breve via Arcivescovado, per modo che lo smantellamento del tetto è stato intrapreso con gran furia e con gran rovesciamento di rovine nella strada sottostante”. (“Dall’archeologia alla moderna edilizia” nel “Corriere della Sera del 9 gennaio 1930).

Demolizioni Milano Ruderi
Da “L’Illustrazione Italiana” n. 14 del 6 aprile 1930.

“Non meno prossima è la sistemazione di via Arcivescovado. Come è stato detto altra volta, ove si è demolito si ricostruirà. Verrà costruito un palazzo munito di portici larghi sei metri e che avrà lo stesso stile architettonico del palazzo che fronteggia piazza Camposanto. La stessa strada, per altro, risulterà allargata sino a venti metri, senza contare lo spazio dei portici”. (“Demolizioni e viabilità intorno a piazza Fontana” nel “Corriere della Sera del 16 aprile 1930).

“È già stato fatto il progetto del palazzo che attaccandosi al palazzo dell’Orologio di fronte all’abside del Duomo dovrà costituire il lato nuovo della via Arcivescovado allargata. La costruzione di questo palazzo renderà possibile la evacuazione di quello di piazza Fontana, angolo via Alciato, che dovrà essere demolito per l’allargamento di questa strada che sbocca in piazza Beccaria”. (“Scenari nuovi” nel “Corriere della Sera” del 18 luglio 1930).

“Si può considerare parte integrante di tale rinnovamento anche la demolizione che è stata fatta in via Arcivescovado. Questa via era larga 8 metri. Quella che risulterà dopo la ricostruzione di una parte degli edifici abbattuti avrà tuttavia l’ampiezza di 20 metri, più altri sei compresi nei portici di cui sarà fornito il nuovo fabbricato. Come si ebbe già occasione di dire, tale fabbricato conserverà le linee architettoniche della casa di via Camposanto, appartenente alla Fabbrica del Duomo. Vi troveranno posto negozi, uffici e abitazioni private”. (“La nuova piazza Fontana” nel “Corriere della Sera” del 9 agosto 1930).

Una cartolina Pace & C. che ritrae piazza Fontana ed i ruderi di via Arcivescovado 1 (Collezione personale Cronache Edilizie Milanesi).

La cartolina Pace & C. qui sopra ritrae in maniera suggestiva la visuale, inedita al tempo, della mole del Duomo non più coperta dalla vecchia casa di via Arcivescovado 1. Sono ancora visibili i ruderi verso sinistra ed una maldestra cancellazione di una gru. Nella cesata in basso sono presenti un gran numero di manifesti; uno di questi è riconoscibile e rappresenta il cioccolato “Ali d’Italia” del celebre Cioccolato Talmone, la cui autorizzazione all’affissione risale al 14 febbraio 1931.

Il cantiere del palazzo della Fabbrica del Duomo di via Arcivescovado 1 visto da piazza Fontana inverno 1931-32. “I Pagliacci” andarono in scena al Carcano il 17.02.1932. (Civico Archivio Fotografico, B 4790).

“A oltre due anni dal della demolizione dei fabbricati preesistenti sta per essere ultimata la nuova costruzione che occupa tutto il lato sinistro di via Arcivescovado, dall’angolo di piazza Camposanto a quello di piazza Fontana. Caduti gli steccati che lo celavano agli sguardi dei passanti, il nuovo palazzo – che appartiene in parte alla Fabbrica del Duomo e per il resto a un privato, – mostra il candore della sua vasta mole e i quattro piani che sovrastano ai portici della larghezza di sei metri”. (Da piazza Duomo all’Idroscalo” nel “Corriere della Sera”del 20 agosto 1932).

Villino Bonsignore

“Il caratteristico gruppo di villette costruito su un reliquato tra il viale Monte Grappa e i Bastioni di porta Nuova si sta demolendo in questi giorni. Niente da rimpiangere, neanche dal punto di vista dell’estetica; è da augurare però che gli uffici comunali abbiano fatto giustizia dei progetti di grattacieli che si pensava di costruire sull’area resa libera. In quella posizione una casa molto alta costituirebbe certo una bruttura”.

(Corriere della Sera, 23 ottobre 1937).

Nessun rimpianto! Non sia mai! Accorrete rapidi a prendere un piccone – demolitore, ca va sans dire – a distruggere il “caratteristico” gruppo di villette per lasciare il posto – si spera – a una “non bruttura” – che, obiettivamente, è il massimo livello a cui possiamo aspirare dal basso del livello di incivile decadenza che abbiamo – per ora – raggiunto. Per fortuna non la pensavano così i redattori de “L’Edilizia Moderna” del numero di settembre del 1908 – così poco, già, durò il Villino Bonsignore! – che oltre ad evidenziare la qualità architettonica delle due opere così vicine tra loro – genero e suocero – ricordavano anche le difficoltà di realizzarle proprio sopra il Cavo Redefossi. 

Il piccolo lotto, dalla forma di un trapezio irregolare, ospitava in uno spazio ristretto sia il Villino Bonsignore – il più grande del gruppo – sia il Villino Braga, con, in mezzo alle due proprietà, un fabbricato adibito a “rustici”, ovvero scuderie, magazzini e locali per la servitù. Se in pianta la distribuzione non risulta particolarmente interessante, altro discorso è per gli alzati: l’architetto cav. Ernesto Quadri, il progettista delle due costruzioni, riuscì a realizzare una costruzione notevole, piacevole alla vista, equilibrata sia pure nelle ricche decorazioni: se l’ing. Roberto Gandini si occupò delle problematiche strutturali al di sopra del Redefossi, l’arch. Quadri collaborò con altri artisti del tempo per realizzare quella che voleva essere la massima espressione di ricchezza possibile per un medio borghese, agiato e ansioso di condividere il proprio status con la città intera.

Il 12 dicembre 1905 fu avanzata richiesta per licenza edilizia per il villino ed i rustici , così descritti: “villino a due piani con solai sottotetto destinazione abitazione. Il piano terreno si trova rialzato di m. 1.60 sul piano del marciapiede stradale. La cucina si trova nel sotterraneo. Murature costruite con mattoni nuovi forti. Impalcature, con orditura di poutrelles e gettate di cemento. Tetto alla piemontese con tegole piane nere. Decorazioni esterne eseguite in pietra artificiale. Pavimenti in piastrelle di cemento e parquets. L’annessa piccola scuderia verrà eseguita secondo le norme di cui sopra riguardo l’ossatura generale. Pavimento della scuderia eseguito in lastra metallica”.

Come spesso accade, la descrizione arida deve lasciare il posto a quelle piccole, meravigliose tavole conservate all’Archivio Ornato Fabbriche di Milano, nelle quali capaci tratti a china con effetti di chiaroscuro, acquarellati, rendono invece splendidamente vivida quella villa che ora non è più. Lo sforzo dell’architetto Quadri, o chi per lui, traspare da ogni linea, da ogni macchia, da ogni traccia: la volontà di rendere gradevole la tavola per il cliente e per la Commissione igienico-edilizia, che esaminò il tutto il 27 dicembre 1905, raccomandando una maggiore “sobrietà decorativa” – saranno felici i fautori delle case inodori ed insapori del giorno d’oggi.

Tutti i disegni allegati sono curati e le architetture sono rappresentate con grazia: finanche le scuderie sembravano destinate più ad accogliere persone piuttosto che animali – ma sarebbe forse più giusto credere il contrario, che il valore attribuito ai cavalli doveva essere superiore a ciò che valutiamo oggi.  Le scuderie erano in comune col sig. Braga, in modo da utilizzare al meglio lo scarso spazio del piccolo lotto, e poggiavano direttamente sul Redefossi naturalmente coperto.

Villa Bonsignore al di là della ricchezza decorativa ha invece una limitata articolazione volumetrica; notevole importanza è concessa allo scalone, di dimensioni importanti se messo  in relazione con la casa relativamente non molto grande, illuminato sauna grande e ricca vetrata scenograficamente visibile anche dall’esterno; per il resto la distribuzione degli ambienti è di fatto governata dai muri portanti. Il medesimo tema della vetrata fu riproposto anche nel prospetto più corto, in corrispondenza di una seconda scala, più piccola.

I lavori iniziano immediatamente, nonostante l’inverno ormai iniziato: il 29 dicembre furono consegnati i punti fissi, che furono particolarmente elaborati data la configurazione planimetrica dell’area. Tuttavia mi lascia più che perplesso la richiesta relativa alla Prima visita, al rustico, già il successivo 30 dicembre! O i lavori erano iniziati prima della presentazione del progetto, oppure si contava realmente di erigere in poche settimane la struttura muraria della villa che, come detto, poggiava tra l’altro in parte sul Redefossi? Questione stuzzicante che sarebbe giusto approfondire se vi fossero degli elementi in più.

In ogni caso il 15 (o forse 16) gennaio 1905 una visita fu realmente ed inutilmente eseguita da parte dell’ingegnere comunale che infatti seccamente stese regolare Relazione di rejezione – addebitando ii costo al sig. Bonsignore. I lavori in dettaglio non sono descritti, ma appare chiaro che le opere murarie erano lungi dall’essere terminate. Curiosamente, nello stesso 16 gennaio fu fatta ancora richiesta per la Prima visita, che comunque fu eseguita solamente il 16 marzo 1906, ma rilevando che le scuderie non erano ancora state realizzate; si  dovette certando attendere il 18 luglio seguente per l’ultima “Prima” visita.  Sei mesi di lavoro, considerando anche le difficoltà tecniche oggettive dell’arco di copertura del Redefossi, rappresentano un giusto tempo di lavoro anche in considerazione delle modeste dimensioni della villa.

Il 6 settembre 1906 fu fatta richiesta di Seconda visita per le opere al civile, che fu regolarmente eseguita il 22 settembre seguente; il 29 settembre fu pertanto già richiesta l’abitabilità, la cui Terza ed ultima visita ebbe luogo il 22 novembre 1906.

Terminò così la costruzione di una delle più belle ville di Milano, la cui esistenza terrena fu molto breve in quanto già alla fine degli anni Trenta fu demolita insieme al suo compagno, il villino Braga, per realizzare il capolavoro di architettura moderna che oggi tutto il mondo ci invidia.


L’area del villino Bonsignore e del Villino Braga.
Villa Bonsignore, piano terreno