Il rettangolo di cielo che ci era concesso.

La luce filtrava dalla tenda che mio padre aveva collocato sulla finestrella posta verso la scala comune della casa e illuminava, con un rettangolo più chiaro, la parete della mia camera; che, poi, camera non era, giacché era un vano di ingresso, piuttosto grande, privo di finestra se non quella verso la scala e senza alcuna porta se non quella di ingresso: un corridoio? Un ingresso?  Un vestibolo? Chiamatelo come volete, io dormivo proprio lì. Lì avevo il mio letto, i miei armadi, la mia libreria, i miei giochi di bambino. Quel disimpegno, se così vogliamo chiamarlo, era il luogo dove trascorrevo la maggior parte della mia giornata non scolastica durante i mesi invernali – in primavera ed in estate giocavo per ore e ore, instancabilmente, nelle “vasche” di via Crema o lì nei pressi comunque.

Il disimpegno poi si restringeva a tal punto da renderlo realmente solo un corridoio, dove era collocata una grande stufa, che non era in grado di scaldare adeguatamente il piccolo appartamento. A sinistra si apriva poi il tinello, con una rientranza ove vi era un tempo il camino ed un piccolo balcone verso l’angusto cortile, unico affaccio verso l’esterno. Il bagno era lungo e stretto – ma non così tanto da non poterci collocare una vasca da bagno – ed infine vi era la camera da letto, il locale più grande della casa. In quella stanza il sole batteva un poco di più e mi piaceva vedere i raggi entrare dalla finestra, passare le tende ondulate e mostrare in controluce il pulviscolo che galleggiava in aria.

La casa aveva quindi solamente una parete verso cortile, e per giunta verso nord-ovest: al primo piano dove eravamo noi, di fatto, il sole non c’era quasi mai. Pure, mi piaceva stare di fronte anche alla finestra della cucina e guardare il rettangolo di cielo che ci era concesso: conoscevo ogni particolare delle case che ci chiudevano come in un recinto, le piante dei cortili – in quello in basso della nostra casa c’era un grande caco che ogni anno buttava decine di frutti di cui, all’epoca, ero ghiotto – costruzioni produttive e artigianali a me sconosciute.

Uscendo dal balcone era possibile quasi, allungando la mano, toccare quella di chi viveva nell’appartamento a fianco, che, molto più grande ed illuminato del nostro, costituiva un po’ il “piano nobile” della casa senza ascensore. Quando ero bambino viveva una signora già anziana col marito, che familiarmente io chiamavo “tata”, anche se non era mai stata effettivamente una balia per me, ma più una sorta di nonna. Si chiamava Rosa, ma si faceva chiamare Rosetta: classe 1914, faceva la sarta per una piccola clientela di signore, arrotondando la pensione del marito; lui si chiamava Carlo, ma lei, con squisito dialetto milanese, lo chiamava Carlini, anzi, in terza persona “il Carlini”. Lui era classe 1910, era nato in viale Bligny 42, dove c’era e c’è ancora un grosso caseggiato popolare, e percorreva instancabilmente avanti e indietro tutte le strade del quartiere che aveva l’incrocio tra via Crema e via Piacenza il proprio epicentro: sei o sette strade in tutto, il “confine” immateriale poteva essere individuato in viale Sabotino e corso Lodi da una parte, via Ripamonti ad est e viale Toscana a sud. 

Il Carlini lo si poteva incontrare ad ogni ora del giorno – prima delle 12 e dopo le 15 – con un sacchetto sottobraccio, o la baguette, o una copia de “La Notte”, andare e venire dalla casa alla bottega alla quale era diretto e poi ancora a casa e poi via verso una nuova bottega: non amava evidentemente riempirsi di borse, preferiva camminare, tornare a casa quel tanto per lasciare la piccola spesa e poi via di nuovo verso altri acquisti quotidiani: il latte, la carne, il prosciutto. A quel tempo Porta Romana era una sequenza quasi ininterrotta di ogni genere di negozio, alimentare e no: sarebbe stato possibile camminare entrambi i marciapiedi di via Crema ed effettuare quella che oggi sarebbe una spesa tipica da supermercato.

La mia casetta di via Trebbia 27 era una delle più piccole e meno belle del quartiere: genericamente liberty, va bene, ma non reggeva il confronto con le grandi, belle, finemente decorate, rivestite con maioliche fiorite, di via Crema e via Piacenza – e ai miei tempi non esisteva già più la villa del Sommaruga! Pure, ci ero affezionato a quelle tre finestre per piano, a quei balconi, a quelle colonnine, a quei colori beige e marrone. 

Lì ho vissuto dalla fine di dicembre del 1974 fino al dicembre 1989.

Cronologia

  • 30 settembre 1910: protocollo di domanda di nulla osta per opere edilizie.
  • 17 ottobre 1910: consegna dei punti fissi.
  • 25 ottobre 1910: rejezione di progetto di nuove opere per altezze non regolamentari.
  • 4 novembre 1911: Commissione igienico-edilizia.
  • 6 maggio 1911: domanda di modifiche alle opere edilizie (dotazione di botteghe al piano terreno)
  • 24 maggio 1911: Commissione igienico-edilizia variante
  • 9 giugno 1911: avviso per nulla osta di opere edilizie
  • 31 luglio 1911: domanda di Prima visita
  • 1 agosto 1911: Prima visita al rustico (prot. 99502/6723 Rip. IX) – anomalia data.
  • 6 settembre 1911: Prima visita (prot. 99502&6723 Rip. IX)
  • 30 dicembre 1911: domanda di Seconda visita.
  • 30 dicembre 1911: Seconda visita al civile (prot. 165326/11448 Rip. IX) – anomalia data.
  • 12 marzo 1912: domanda di Abitabilità.
  • 25 marzo 1912: Seconda visita al civile.
  • 25 marzo 1912: domanda di Terza visita straordinaria di abitabilità.
  • 9 giugno 1912: Terza visita per abitabilità.

Il 30 settembre 1910 il capomastro Natale Castoldi, dimorante in via Pasquale Sottocorno 37, presentò domanda di nulla osta per opere edilizie da realizzarsi in via Trebbia, nel tratto compreso tra via Crema e via Adige. Il progetto risulta firmato dall’arch. Ugo Gattermayer, con residenza al civico 24 di via Macedonio Melloni, anche se è molto probabile che il capomastro, nella doppia veste di proprietario ed esecutore dei lavori, dovesse in realtà svolgere un ruolo decisivo anche per quanto riguardava le questioni progettuali. La descrizione che accompagna la domanda è piuttosto scarna anche secondo i canoni dell’epoca: “casa d’abitazione civile composta del piano terreno rialzato tre piani superiori ed il quarto arretrato dalla gronda di n. 3.00”. Nessun cenno relativamente alla distribuzione, del resto piuttosto semplice in quanto limitata a due soli appartamenti per piano, né alle caratteristiche costruttive e tecnologiche, che comunque dovevano essere piuttosto semplici e coerenti con strutture murarie in mattoni pieni.

Il progetto dell’arch. Gattermayer prevedeva la costruzione di un fabbricato stretto e lungo, approssimativamente ad “L”, con un piccolo cortile, non di uso comune, relegato ad una piccola porzione del lotto. La prima versione del progetto prevedeva un piccolo appartamento ad uso portineria diurna e notturna ed i soprastanti quattro piani adibiti ad appartamenti d’affitto. Se la facciata verso via Trebbia presenta una composizione equilibrata e gradevole, ritmicamente gradevole pur nella sua limitata estensione, decisamente più povere sono le facciate verso il cortile. Il verbale dei punti fissi fu eseguito il 17 ottobre successivo e l’impressione che ne si ricava è che quel tratto di via Trebbia fosse ancora inedificato: la mappa toponomastica comunale del 1914, qualche anno più tardi, mostra tuttavia come esistenti anche altri fabbricati, che forse erano già in progetto o in esecuzione proprio intorno al 1910-1911. 

Approvato il progetto da parte della Commissione igienico-edilizia il 4 novembre successivo, i lavori iniziarono con ogni probabilità piuttosto presto, considerando che spesso durante il mese di gennaio o febbraio la neve ed il freddo intenso riducevano le ore di lavoro effettivo. Il 6 maggio 1911 fu presentata domanda di variante alle opere edilizie: al posto della portineria diurna e notturna – tutto sommato forse eccessiva per un fabbricato di dimensioni limitate come questo – furono previste due botteghe, modificando sostanzialmente il prospetto verso via Trebbia. La domanda di Prima visita, relativa alle opere al rustico, fu richiesta solamente il 31 luglio ed eseguita il 6 settembre 1911 (al riguardo è presente un documento nel fascicolo edilizio che riporta per errore le date di domanda al posto di quelle effettive di visita): un lasso di tempo decisamente lungo per una costruzione modesta come quella in esame, che lascia supporre qualche ritardo nella esecuzione. La Seconda visita, al civile, fu richiesta il 30 dicembre ed eseguita solamente il 25 marzo 1912, mentre la visita per l’Abitabilità, la terza, fu eseguita il 9 giugno 1912. Rimane il fatto che la piccola costruzione fu, carte alla mano, costruita nel corso di oltre venti mesi di lavoro, quasi due anni: un periodo di tempo troppo lungo: una comunicazione da parte del capomastro Castoldi lascia supporre che forse furono “dimenticate” alcune domande di vista, ma ciò appare difficile da credere a dire il vero. 

Si concludono così i lavori di via Trebbia 27 – che però, per qualche lustro, ebbe come civico il numero 8, giacché la numerazione dell’intera strada fu ribaltata completamente. 


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