L’allargamento di via Arcivescovado (gennaio-aprile 1930)

“Dall’altro ieri è cominciata la demolizione dell’ala destra dell’edificio prospiciente l’abside del Duomo; edificio che, come è noto, dovrà essere ridotto alla sola parte centrale, quella che include la chiesetta dell’Annunziata e che reca sul fastigio la decorazione del grande orologio. La parte per ora in demolizione è quella che corrisponde alla via Arcivescovado ed è appunto per allargare questa via che scompare una costruzione che non si sarebbe certo potuta condannare, come è invece il caso di tanta altra edilizia del centro, per la sua decrepitezza. Perché i lavori di abbattimento siano più rapidi è stata ieri addirittura preclusa al transito tutta la breve via Arcivescovado, per modo che lo smantellamento del tetto è stato intrapreso con gran furia e con gran rovesciamento di rovine nella strada sottostante”. (“Dall’archeologia alla moderna edilizia” nel “Corriere della Sera del 9 gennaio 1930).

Demolizioni Milano Ruderi
Da “L’Illustrazione Italiana” n. 14 del 6 aprile 1930.

“Non meno prossima è la sistemazione di via Arcivescovado. Come è stato detto altra volta, ove si è demolito si ricostruirà. Verrà costruito un palazzo munito di portici larghi sei metri e che avrà lo stesso stile architettonico del palazzo che fronteggia piazza Camposanto. La stessa strada, per altro, risulterà allargata sino a venti metri, senza contare lo spazio dei portici”. (“Demolizioni e viabilità intorno a piazza Fontana” nel “Corriere della Sera del 16 aprile 1930).

“È già stato fatto il progetto del palazzo che attaccandosi al palazzo dell’Orologio di fronte all’abside del Duomo dovrà costituire il lato nuovo della via Arcivescovado allargata. La costruzione di questo palazzo renderà possibile la evacuazione di quello di piazza Fontana, angolo via Alciato, che dovrà essere demolito per l’allargamento di questa strada che sbocca in piazza Beccaria”. (“Scenari nuovi” nel “Corriere della Sera” del 18 luglio 1930).

“Si può considerare parte integrante di tale rinnovamento anche la demolizione che è stata fatta in via Arcivescovado. Questa via era larga 8 metri. Quella che risulterà dopo la ricostruzione di una parte degli edifici abbattuti avrà tuttavia l’ampiezza di 20 metri, più altri sei compresi nei portici di cui sarà fornito il nuovo fabbricato. Come si ebbe già occasione di dire, tale fabbricato conserverà le linee architettoniche della casa di via Camposanto, appartenente alla Fabbrica del Duomo. Vi troveranno posto negozi, uffici e abitazioni private”. (“La nuova piazza Fontana” nel “Corriere della Sera” del 9 agosto 1930).

Una cartolina Pace & C. che ritrae piazza Fontana ed i ruderi di via Arcivescovado 1 (Collezione personale Cronache Edilizie Milanesi).

La cartolina Pace & C. qui sopra ritrae in maniera suggestiva la visuale, inedita al tempo, della mole del Duomo non più coperta dalla vecchia casa di via Arcivescovado 1. Sono ancora visibili i ruderi verso sinistra ed una maldestra cancellazione di una gru. Nella cesata in basso sono presenti un gran numero di manifesti; uno di questi è riconoscibile e rappresenta il cioccolato “Ali d’Italia” del celebre Cioccolato Talmone, la cui autorizzazione all’affissione risale al 14 febbraio 1931.

Il cantiere del palazzo della Fabbrica del Duomo di via Arcivescovado 1 visto da piazza Fontana inverno 1931-32. “I Pagliacci” andarono in scena al Carcano il 17.02.1932. (Civico Archivio Fotografico, B 4790).

“A oltre due anni dal della demolizione dei fabbricati preesistenti sta per essere ultimata la nuova costruzione che occupa tutto il lato sinistro di via Arcivescovado, dall’angolo di piazza Camposanto a quello di piazza Fontana. Caduti gli steccati che lo celavano agli sguardi dei passanti, il nuovo palazzo – che appartiene in parte alla Fabbrica del Duomo e per il resto a un privato, – mostra il candore della sua vasta mole e i quattro piani che sovrastano ai portici della larghezza di sei metri”. (Da piazza Duomo all’Idroscalo” nel “Corriere della Sera”del 20 agosto 1932).

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Villino Bonsignore

“Il caratteristico gruppo di villette costruito su un reliquato tra il viale Monte Grappa e i Bastioni di porta Nuova si sta demolendo in questi giorni. Niente da rimpiangere, neanche dal punto di vista dell’estetica; è da augurare però che gli uffici comunali abbiano fatto giustizia dei progetti di grattacieli che si pensava di costruire sull’area resa libera. In quella posizione una casa molto alta costituirebbe certo una bruttura”.

(Corriere della Sera, 23 ottobre 1937).

Nessun rimpianto! Non sia mai! Accorrete rapidi a prendere un piccone – demolitore, ca va sans dire – a distruggere il “caratteristico” gruppo di villette per lasciare il posto – si spera – a una “non bruttura” – che, obiettivamente, è il massimo livello a cui possiamo aspirare dal basso del livello di incivile decadenza che abbiamo – per ora – raggiunto. Per fortuna non la pensavano così i redattori de “L’Edilizia Moderna” del numero di settembre del 1908 – così poco, già, durò il Villino Bonsignore! – che oltre ad evidenziare la qualità architettonica delle due opere così vicine tra loro – genero e suocero – ricordavano anche le difficoltà di realizzarle proprio sopra il Cavo Redefossi. 

Il piccolo lotto, dalla forma di un trapezio irregolare, ospitava in uno spazio ristretto sia il Villino Bonsignore – il più grande del gruppo – sia il Villino Braga, con, in mezzo alle due proprietà, un fabbricato adibito a “rustici”, ovvero scuderie, magazzini e locali per la servitù. Se in pianta la distribuzione non risulta particolarmente interessante, altro discorso è per gli alzati: l’architetto cav. Ernesto Quadri, il progettista delle due costruzioni, riuscì a realizzare una costruzione notevole, piacevole alla vista, equilibrata sia pure nelle ricche decorazioni: se l’ing. Roberto Gandini si occupò delle problematiche strutturali al di sopra del Redefossi, l’arch. Quadri collaborò con altri artisti del tempo per realizzare quella che voleva essere la massima espressione di ricchezza possibile per un medio borghese, agiato e ansioso di condividere il proprio status con la città intera.

Il 12 dicembre 1905 fu avanzata richiesta per licenza edilizia per il villino ed i rustici , così descritti: “villino a due piani con solai sottotetto destinazione abitazione. Il piano terreno si trova rialzato di m. 1.60 sul piano del marciapiede stradale. La cucina si trova nel sotterraneo. Murature costruite con mattoni nuovi forti. Impalcature, con orditura di poutrelles e gettate di cemento. Tetto alla piemontese con tegole piane nere. Decorazioni esterne eseguite in pietra artificiale. Pavimenti in piastrelle di cemento e parquets. L’annessa piccola scuderia verrà eseguita secondo le norme di cui sopra riguardo l’ossatura generale. Pavimento della scuderia eseguito in lastra metallica”.

Come spesso accade, la descrizione arida deve lasciare il posto a quelle piccole, meravigliose tavole conservate all’Archivio Ornato Fabbriche di Milano, nelle quali capaci tratti a china con effetti di chiaroscuro, acquarellati, rendono invece splendidamente vivida quella villa che ora non è più. Lo sforzo dell’architetto Quadri, o chi per lui, traspare da ogni linea, da ogni macchia, da ogni traccia: la volontà di rendere gradevole la tavola per il cliente e per la Commissione igienico-edilizia, che esaminò il tutto il 27 dicembre 1905, raccomandando una maggiore “sobrietà decorativa” – saranno felici i fautori delle case inodori ed insapori del giorno d’oggi.

Tutti i disegni allegati sono curati e le architetture sono rappresentate con grazia: finanche le scuderie sembravano destinate più ad accogliere persone piuttosto che animali – ma sarebbe forse più giusto credere il contrario, che il valore attribuito ai cavalli doveva essere superiore a ciò che valutiamo oggi.  Le scuderie erano in comune col sig. Braga, in modo da utilizzare al meglio lo scarso spazio del piccolo lotto, e poggiavano direttamente sul Redefossi naturalmente coperto.

Villa Bonsignore al di là della ricchezza decorativa ha invece una limitata articolazione volumetrica; notevole importanza è concessa allo scalone, di dimensioni importanti se messo  in relazione con la casa relativamente non molto grande, illuminato sauna grande e ricca vetrata scenograficamente visibile anche dall’esterno; per il resto la distribuzione degli ambienti è di fatto governata dai muri portanti. Il medesimo tema della vetrata fu riproposto anche nel prospetto più corto, in corrispondenza di una seconda scala, più piccola.

I lavori iniziano immediatamente, nonostante l’inverno ormai iniziato: il 29 dicembre furono consegnati i punti fissi, che furono particolarmente elaborati data la configurazione planimetrica dell’area. Tuttavia mi lascia più che perplesso la richiesta relativa alla Prima visita, al rustico, già il successivo 30 dicembre! O i lavori erano iniziati prima della presentazione del progetto, oppure si contava realmente di erigere in poche settimane la struttura muraria della villa che, come detto, poggiava tra l’altro in parte sul Redefossi? Questione stuzzicante che sarebbe giusto approfondire se vi fossero degli elementi in più.

In ogni caso il 15 (o forse 16) gennaio 1905 una visita fu realmente ed inutilmente eseguita da parte dell’ingegnere comunale che infatti seccamente stese regolare Relazione di rejezione – addebitando ii costo al sig. Bonsignore. I lavori in dettaglio non sono descritti, ma appare chiaro che le opere murarie erano lungi dall’essere terminate. Curiosamente, nello stesso 16 gennaio fu fatta ancora richiesta per la Prima visita, che comunque fu eseguita solamente il 16 marzo 1906, ma rilevando che le scuderie non erano ancora state realizzate; si  dovette certando attendere il 18 luglio seguente per l’ultima “Prima” visita.  Sei mesi di lavoro, considerando anche le difficoltà tecniche oggettive dell’arco di copertura del Redefossi, rappresentano un giusto tempo di lavoro anche in considerazione delle modeste dimensioni della villa.

Il 6 settembre 1906 fu fatta richiesta di Seconda visita per le opere al civile, che fu regolarmente eseguita il 22 settembre seguente; il 29 settembre fu pertanto già richiesta l’abitabilità, la cui Terza ed ultima visita ebbe luogo il 22 novembre 1906.

Terminò così la costruzione di una delle più belle ville di Milano, la cui esistenza terrena fu molto breve in quanto già alla fine degli anni Trenta fu demolita insieme al suo compagno, il villino Braga, per realizzare il capolavoro di architettura moderna che oggi tutto il mondo ci invidia.


L’area del villino Bonsignore e del Villino Braga.
Villa Bonsignore, piano terreno

Il mercato rionale di piazzale Crespi

La rivalutazione della Lira tra la fine del 1926 ed i primi mesi del 1927 costrinse il governo ad attuare alcune misure atte a ridurre i prezzi per venire incontro alla deflazione salariale. All’interno d questo programma, il Comune di Milano, insieme ai vari attori del mercato alimentare, come l’Azienda consorziale dei consumi, innanzitutto fissò i nuovi prezzi di generi alimentari, ma, cosa più rilevante per noi, progettò un ampio programma di costruzione di mercati rionali per una spesa preventivata di ben due milioni di lire, duecentomila delle quali da spendersi nel 1927. L’amministrazione aveva già individuato negli anni precedenti le seguenti zone:

  • Rondò Loreto all’imbocco di viale Abruzzi;
  • Via Benedetto Marcello;
  • Ex dazio Garibaldi;
  • Incrocio tra via Garigliano e via Volturno;
  • Piazza Lega Lombarda;
  • Largo Procaccini;
  • Piazzale Piemonte;
  • Piazzale generale Cantore;
  • Piazzale XXIV maggio;
  • Largo all’imbocco di via Mantova.

Si trattava in genere di zone di proprietà già comunale, per evitare spese extra, dove di solito convergevano i contadini o mercanti per svolgere piccole vendite al dettaglio. I progetti prevedevano comunque la realizzazione di semplici tettoie con banchi per generi alimentari, eventualmente integrate con una piccola cella frigorifera: niente di più. 

Il mercato in piazza Crespi, oggi piazza Gramsci, fu inaugurato l’11 marzo 1928, terzo realizzato dopo quello di viale Abruzzi e di piazzale Cantore. Rispetto ai primi due, questo mercato, pur tipologicamente simile, tradisce una certa ricerca architettonica, sia pure nei limiti imposti dal bilancio comunale, a partire dalla forma più elaborata, con le campate centrali in risalto e la struttura particolarmente aerea. Tuttavia la politica calmieratrice suggerì, con una certa crudezza, di non realizzare magazzini o celle frigorifere annesse alla struttura al fine di “costringere”, per così dire, i negozianti a vendere a prezzi bassi i propri prodotti senza tentare di creare distorsioni da accaparramento.

Anche questo mercato fu distrutto durante la seconda guerra mondiale.


Casa Dones

Via Carlo Poerio è stata spesso fotografata per stampare delle cartoline, data la misurata bellezza di questa piccola strada milanese; ben visibile spesso è una casa media, alta quattro piani compreso il terreno, dal caratteristico stile neoromanico, facile da riconoscere per via degli archi a tutto sesto bicromatici che compongono le cornici delle finestre dei piani primo e secondo. La gradevole cromia della facciata è anche sottolineata dalla superficie a muratura di mattoni pieni a vista che fa da sfondo ad un ricco repertorio decorativo in cemento e fregi ornamentali. Siamo insomma di fronte ad una casa che mescola elementi nazional-popolari con radi interventi floreali giusto come aggiornamento stilistico, secondo i desiderata di una clientela borghese, ansiosa di rappresentare la propria dignità sociale.

La casa è stata oggetto della Tavola 25 della ormai celebre raccolta “Le Costruzioni Moderne in Italia. Milano”, vol. I, s.d. ma 1907, che permette di godere pienamente della bellezza dei dettagli del fabbricato: dai pluviali alle ringhiere in ferro, alle balaustre in cemento decorativo con elementi polilobati. Ho speso qualche parola in più rispetto al consueto perché mi chiedo che tipo di indifferenza è necessario provare per demolire tutto questo: cosa si dice in questi casi? “Questa la tiriamo giù?”. Deve essere qualcosa del genere, come si cancella un brutto ricordo o qualcosa del quale non ci importa assolutamente nulla. 

Nel Censimento urbanistico del 1946 il tecnico rilevatore della scheda II-27, relativa all’isolato  compreso tra via Poerio, via Bixio, via Kramer e via Bellotti, l’ing.  Ciampoli daterà il civico 31, uscito indenne dalla guerra, nientepopodimenoche al… 1850! Uno svarione di rilevanza secondaria, mi rendo conto, ma sbagliare la datazione di una casa di oltre cinquant’anni direi che non è male. 

Il 21 luglio 1903 la signora Annunciata Dones presentò domanda per licenza edilizia relativamente ad una casa in via Carlo Poerio 31, direttore delle opere ing. Giuseppe Riboni: “consta di un unico corpo di fabbrica con fronte di ml 16.00 lungo la via Poerio. Il fabbricato è a 4 piani compreso il terreno con un totale di N. 32 locali. Il cortile è di m. 16.70 x 16.00. L’altezza totale dal piano marciapiedi al canale di gronda è di ml 15.60”. Descrizione scarna, arida oserei dire, che si limita tratteggiare la sagoma senza minimamente saggiare le questioni costruttive, distributive o linguistiche. Pure, qualcosa, come abbiamo visto, la casa avrebbe meritato: almeno un cenno via! I disegni sono firmati dall’ing. Giuseppe Riboni, ma la Tavola 25 della suddetta raccolta evidenzia come progettista l’arch. Galeazzo Salmoiraghi; ritengo a questo punto possibile che il progetto architettonico sia da attribuire a quest’ultimo nonostante l’assenza di documentazione d’archivio. 

Il 3 agosto furono consegnati i punti fissi – semplicemente la congiungente tra gli zoccoli degli edifici adiacenti, presumibilmente pertanto già costruiti, civici 29 e 33. La Commissione igienico-edilizia approvò il progetto, senza particolari osservazioni, già il 6 agosto seguente. 

Il 17 ottobre fu richiesta la I visita, relativamente alle opere al rustico, eseguita il 29 ottobre 1903. Tale rapidità di esecuzione non fu tuttavia accompagnata da quelle al civile, giacché la II visita fu richiesta solamente il 10 aprile 1904 ed eseguita in due volte: la prima, suppletiva, il 3 maggio; la seconda, definitiva, il 18 agosto 1904. In questa visita si riscontrò la presenza di due abbaini non presenti in progetto e non regolamentari, che, come sempre in questi casi, furono oggetto delle consuete comunicazioni tra gli uffici tecnici e la proprietà. Di conseguenza anche la III visita, relativa all’abitabilità, fu eseguita due volte: la prima il 21 settembre 1904, relativamente solo fino al terzo piano fuori terra; il piano quarto fu invece visitato solamente il 2 marzo 1905.

La vita terrena di Casa Dones fu tutto sommato breve, poco più di un cinquantennio, dato che la sua demolizione probabilmente risale alla fine degli anni Cinquanta o i primi anni Sessanta.


Casa Zanini

La bella fotografia della Tavola 20 della ormai più che nota raccolta “Le Costruzioni Moderne in Italia. Milano”, vol. I, s.d. ma 1907, rappresenta di sguincio una notevole casa d’angolo, visibile solo parzialmente a causa del rilevato ferroviario che nasconde parte del piano terreno. La casa, a firma dell’arch. Amilcare Mella, era situata a quel tempo all’incrocio tra via Bixio e via Cascine Doppie, in quella che oggi sarebbe piazza Adelaide di Savoia: per questa sua posizione particolare essa assunse diversi indirizzi: via Cascine Doppie 1, e via Nino Bixio 31 o 33 e infine piazza Maria Adelaide di Savoia 4. La casa è stata ritratta più volte, data la sua eccellente posizione d’angolo, tuttavia già pochi anni dopo la sua costruzione non sono più visibili i fregi ornamentali dell’ultimo piano che invece appaiono, perfettamente disegnati, nella Tavola 20 della raccolta di cui sopra.

Il 1° settembre 1905 fu protocollata da parte del sig. Aristodemo Zanini la richiesta della licenza edilizia relativamente ad una casa d’abitazione e botteghe in quella che all’epoca era via Cascine Doppie, civico 1, direttore dei Lavori ing. Amilcare Mella. Fu tuttavia necessario presentare per ben due volte i disegni alla Commissione igienico-edilizia, la quale il 6 settembre – ma i disegni purtroppo non è stato dato vederli – rilevò nientedimeno che “la facciata appare disorganica e dovrà essere ristudiata con intenti di maggiore correttezza decorativa. Dovranno migliorarsi i contorni di porte al piano terreno: si richiede una facciata coll’indicazione delle tinteggiature”; mentre il successivo 15 settembre, modificati evidentemente i disegni, si limitò ad un più benevolo nulla osta “a condizione che vengano soppressi i mattoni e pietra visti nella decorazione della facciata”. E’ però necessario affermare a mio parere che in questo caso i disegni del buon architetto o ingegnere Mella non rendono giustizia alla casa che poi è stata effettivamente realizzata: il disegno “spiegato” con le tre facciate messe sullo stesso piano infatti fa perdere completamente il fascino dello spigolo e la articolazione volumetrica sembra completamente diversa. 

In ogni caso, i lavori procedettero molto speditamente se già il 29 dicembre 1905 venne richiesta la Prima visita al rustico – al netto della concreta possibilità che si cercasse, secondo un vezzo comune a quel tempo, di “forzare un po’ i tempi”; è forse per questa ragione che il 19 gennaio 1906 fu notificata la rejezione di visita – probabilmente i lavori non erano poi così completati come si potrebbe ipotizzare. Fu pertanto necessario attendere un più ragionevole 7 marzo per la Prima visita definitiva.  La Seconda visita, eseguita due volte, fu eseguita infine il 13 settembre, mentre la Terza visita, relativa all’abitabilità, risale al 20 ottobre 1906.  Tempi comunque piuttosto rapidi anche secondo gli standard dell’epoca.

La sua vita terrena terminò probabilmente tra la fine degli anni Cinquanta ed i primi anni Sessanta, per lasciare il posto alla costruzione attuale.


Casa Valsecchi

L’ormai nota – per i miei rari lettori – raccolta “Le costruzioni moderne in Italia. Milano”, vol. I, della Crudo Editore di Torino, s.d. ma 1907, alla tavola 17 raffigura la fotografia di una graziosa, piccola casetta che era situata in via Carlo Pisacane 8. Si trattava di una casetta costruita nell’ambito del programma della Cooperativa “Case ed Alloggi”, che acquistava terreni al più basso prezzo possibile per poi rivenderli ai suoi stessi soci, in modo da garantire loro un certo vantaggio economico. Il capomastro Odoardo Valsecchi presentò il 27 novembre 1901 istanza per licenza edilizia per la costruzione di un villino, direttore delle opere l’ing. Luigi Guarnaschelli. La tavola 17 della suddetta raccolta indica come progettista “l’arch. Odoardo Valsecchi”; è forse possibile che il buon capomastro sia stato di fatto il reale progettista del villino e che l’ing. Guarnaschelli si sia limitato a firmare i disegni: chissà! A quel tempo credo che non fosse inusuale per un “maestro” di opere edilizie considerare la presenza di un ingegnere laureato poco più che una scocciatura burocratica.

I bei disegni conservati presso l’Archivio Ornato Fabbriche rappresentano il consueto villino di inizio secolo, alto due piani oltre il sotterraneo e l’abbaino, occupante gran parte di un lotto lungo e stretto.  La distribuzione planimetrica della casetta non è particolarmente interessante, ma in effetti il prospetto verso via Pisacane lo è: rispetto ai consueti villini caratteristici del tempo, nei quali si realizzava una facciata tripartita con finestre incorniciate, balcone centrale e fregi ornamentali, in questo caso il progettista – Valsecchi? – realizza una gustosa facciata asimmetrica nella quale gli elementi più rilevanti sono costituiti dalle possenti e centrali paraste in muratura di mattoni pieni e cemento decorativo che, da sole, costituiscono il tema della casa. Non male per una superficie così limitata e per una costruzione così piccola!

Il progetto fu approvato dalla Commissione igienico-edilizia il 12 dicembre 1901 e probabilmente la sua costruzione iniziò immediatamente se già il 18 febbraio 1902 il capomastro fece richiesta di I visita, che fu comunque eseguita solamente il 14 marzo successivo. Furono invece necessarie due visite al civile, una ,suppletiva, il 5 aprile nella quale si rilevò l’incompletezza dei serramenti del piano sotterraneo, l’ultima e definitiva del 24 giugno. La Terza ed ultima visita, quella sanitaria, fu eseguita il 18 settembre 1902; la costruzione fu pertanto realizzata in circa nove mesi, un tempo ridotto al minimo secondo gli standard stabiliti dal Regolamento Edilizio per l’asciugatura delle pareti e degli elementi di finitura.

Oggi il grazioso villino non esiste più: sinistrato al 25% secondo il Censimento del 1946, è probabile che stato demolito già nei primi anni Cinquanta.


Casa Vismara

Il 13 gennaio 1906 fu presentata richiesta per licenza edilizia relativamente alla costruzione di una casa in via Donizetti, civico 30 – ma il numero fu destinato poi ad essere modificato in prima in 22, poi in 24 – da parte dei Fratelli Vismara e dalla vedova Luigia Arcelasco in Vismara. Via Donizetti era – ed è ancora – una piccola via, ai margini del tracciato dei vecchi bastioni verso porta Vittoria: una zona interessante, tra Santa Maria della Passione ed il monumento alle Cinque Giornate, caratterizzato da una lottizzazione molto fitta, con lotti di estensione generalmente limitata e da costruzioni piccole e basse. 

Il progettista chiaramente indicato nelle carte conservate presso l’Archivio Ornato Fabbriche è il noto architetto Nazzareno Moretti, autore di altre pregevoli opere; tuttavia nella raccolta “Le Costruzioni Moderne in Italia”, vol. I, nella tavola 11, nella bella iconografia databile 1907, è invece scritto il nome dell’architetto Domenico Betteo. Sinceramente ignoro se vi possa essere stato un rapporto di collaborazione di qualche tipo tra i due professionisti; i celebri volumi di Rossana Bossaglia indicano come progettista della casetta ancora il Betteo – ma indicando come fonte la suddetta raccolta; mi rimane insomma il dubbio di un semplice errore o scambio di professionisti. 

Per quanto mi riguarda, alla luce della documentazione d’Archivio, il progettista è il Moretti; ma naturalmente sono pronto a rivedere questa posizione se necessario.

Il progetto firmato dal Moretti rappresenta la consueta, piccola casa d’abitazione della piccola borghesia milanese degli inizi del XX secolo: alta tre piani oltre il sotterraneo, a tre campate, più profonda che larga, era di fatto un progetto classico con il repertorio decorativo floreale che andava per la maggiore: cornici e rilievi in cemento decorativo, balaustre in ferro battuto, graffiti e fregi ornamentali. Le limitate dimensioni del lotto sono praticamente tutte occupate dalla costruzione, che lascia inedificato solamente un piccolo cavedio in prossimità della scala ed un piccolo giardinetto sul retro. Proprio la presenza di quel piccolo cavedio a confine con la proprietà adiacente (proprietà Gasparetti, poi Cressini, civico 20) sarebbe stata la causa principale della rejezione del progetto da parte della Commissione igienico-edilizia: date le dimensioni molto piccole del “chiostrino”, sarebbe stato necessario stipulare una convenzione con il vicino relativamente alla “altius non tollendi” ovvero l’impossibilità di edificare oltre in altezza. Questo genere di convenzioni erano piuttosto comuni, dato che il Regolamento edilizio consentiva la realizzazione di questi cavedi o pozzi di luce le cui condizioni igieniche naturalmente rischiavano di peggiorare qualora fossero stati modificati sostanzialmente i parametri delle altezze.

Parallelamente alla costruzione della casetta pertanto iniziò una lunga elaborazione dei termini e dei modi con i quali sarebbe stata poi messa in atto questa Convenzione, regolarmente stipulata il 7 gennaio 1907 ma che qui per brevità accenniamo solamente. Con la bozza del preliminare di tale convenzione fu finalmente ottenuto il Nulla osta da parte della Commissione igienico-edilizia il 21 febbraio 1906. 

Tuttavia già il 27 marzo 1906 fu richiesta una variante per un sopralzo di due locali in copertura – anche in questo caso fonte di qualche problema per la loro abitabilità.  La questione dell”altius non tollendi” si trascinò ancora, però, in quanto le richieste della Prima visita furono per qualche tempo respinte in assenza di un preliminare di convenzione. Per questa ragione si dovette attendere fino al 3 maggio 1906 per ottenere finalmente il rilascio della licenza edilizia, ed il successivo 8 agosto fu eseguita la Prima visita al rustico.

A questo punto – con una certa arditezza devo dire – il 30 dicembre 1906 fu fatta richiesta nientedimeno che per l’occupazione dei locali – quando la Seconda visita, relativa al civile, fu eseguita il giorno dopo, il 31 dicembre! E si trattò di una visita suppletiva, ovvero non definitiva, dal costo a carico del cliente; quella definitiva risalì infatti al successivo 5 marzo 1907. La Terza ed ultima visita per l’abitabilità fu infine eseguita il 24 maggio 1907.

Oltre un anno di tempo per terminare una costruzione piuttosto piccola era un tempo notevolmente lungo per gli standard dell’epoca, oserei dire decisamente troppo; senza dubbio il progetto particolare del Moretti – che forse denotava una non completa dimestichezza con le pieghe del Regolamento Edilizio – contribuì a rallentare i tempi con il cavedio a confine e la conseguente necessaria convenzione con il vicino. Tant’è.

La bella Tavola 11 della raccolta di cui sopra ritrae solamente una parte della piccola costruzione; ma è sufficiente per farci apprezzare le delicate proporzioni di una casa destinata ad una famiglia la cui vedova, signora Luigia, probabilmente si vede dolcemente appoggiata alla balaustra del balcone del piano primo.

La sua vita terrena – intendo della casa beninteso – ebbe termine probabilmente tra la fine degli anni Cinquanta ed i primi anni Sessanta.


Casa Cucchi

Nella pianta di Milano Bertarelli del 1903, “coll’indicazione dei piani di ampliamento e regolatori esecutivi” si può ammirare a nord della vecchia Stazione Centrale una via Vittor Pisani che, di fatto, non corrisponde più a quella attualmente esistente: più stretta, ma sopratutto inclinata, non ad angolo retto. Tra via “Boscovic” e piazza Andrea Dora – oggi Duca d’Aosta – a metà dell’isolato, si nota una piccola costruzione quadrata: quella piccola costruzione – intorno alla quale mi piacerebbe avere altre informazioni d’archivio – fu oggetto di un teorico “ampliamento” – di fatto una “aggiunta” edilizia – da parte del noto architetto Nazzareno Moretti.


Il 13 febbraio 1903 fu infatti avanzata istanza per la costruzione di una nuova casa di proprietà del sig. Marcello Cucchi, progetto dell’ing. Nazzareno Moretti. La preesistenza fu integralmente conservata – ad eccezione della facciata naturalmente – ed accostata come un corpo a sé stante nel corpo di fabbrica nuovo, che si presentava più largo e più profondo. Si creava così una curiosa configurazione, con una sagoma in pianta dalla forma asimmetrica e che non faceva nulla per nasconderlo; tuttavia tale coraggio viene meno in facciata, giacché si ricorre a qualche stratagemma per regolarizzare e rendere simmetricamente euritmico il prospetto verso via Vittor Pisani. I disegni rispecchiano in pieno lo stile nazional popolare floreale, arricchito però con figure di cigni nel fregio all’ultimo piano che la rendono decisamente particolare. Il repertorio decorativo è decisamente eclettico, le figure muliebri – sfingi greche? – alla sommità delle paraste e anche sopra il portale sembrano lievemente inquietanti…


Il progetto fu così descritto nella relazione allegata: “Casa di nuova costruzione e sopralzo di fabbricato già esistente in modo da formare completamente un grande fabbricato per uso abitazione civile composta di N. 5 piani compreso il terreno – facciata – zoccolo in pietra naturale (Urago) – i contorni di finestre, della porta e la gronda in pietra artificiale (cemento lavorato) – soffitti in cemento armato sistema (Luipold). Tetto con orditure in legname e copertura tegole marsigliesi. Pavimento parte in parquets il resto in mattonelle di cemento. Scale di bevola e parapetto in ferro. Serramenti, finestre verso la via a coulisses, verso giardino a pollice – Acqua potabile – Gas”. Ammetto che, fino alla lettura di questo breve scritto, ignoravo cosa fossero i serramenti a pollice!


Il progetto in ogni caso fu esaminato dalla Commissione igienico-edilizia il 26 febbraio successivo ed approvato con un paio particolari osservazioni di secondaria importanza. I lavori dovettero iniziare subito e di buona lena se già pochi mesi dopo, il 26 giugno, il capomastro Leoni si decise a richiedere la Prima visita al rustico, che fu eseguita il 7 luglio. Il 2 novembre 1903 tuttavia fu avanzata richiesta per un modesto ampliamento, limitato ad un paio di locali ed un passaggio, nell’unità immobiliare del piano rialzato, verso cortile, che, come si vedrà, fu oggetto di particolari problemi. Tale ampliamento fu approvato dalla Commissione igienico-edilizia il 19 novembre. E’ di un certo interesse notare che la casa, sia pure dignitosa nelle forme, nelle decorazioni e nella distribuzione generosa dei locali, non fosse dotata di allaccio alla pubblica fognatura – giacché non vi era in quel tratto – e nemmeno di acqua potabile: per entrambi questi servizi essenziali si doveva ripiegare rispettivamente al pozzo nero e ad acqua di pozzo.


Il 21 dicembre fu avanzata richiesta finalmente per la Seconda visita, al civile, che fu eseguita due volte, una il 12 gennaio e l’altra il 27 febbraio 1904. Anche la Terza visita, per l’abitabilità, fu eseguita due volte, l’8 ed il 18 aprile 1904. Nella prima furono riscontrati infatti alcuni problemi relativi a quelle verande situate al piano rialzato, oggetto dell’ampliamento di cui sopra, ed in un paio di locali altrove. La querelle fu portata avanti fino alla fine del mese di agosto 1904, quando fu richiesto ennesimo Nulla osta per abitabilità in vista dell’imminente affitto delle abitazioni.


Qualche anno più tardi la sua costruzione essa fu anche destinata a struttura albeghiera: l’Albergo Esperia. Dopo la demolizione della vecchia Stazione Centrale e la conseguente rinumerazione della via, essa assunse il civico 26.

La vita terrena di Casa Cucchi, come per tutte quelle prospicienti via Vittor Pisani, non fu comunque molto lunga: un sessantennio circa, giacché fu demolita in occasione dei lavori eseguiti nei primi anni Sessanta per l’allargamento della strada e la sua rettifica.


Casa Pini

Il 19 luglio 1903 il sig. Adolfo Pini presentò presso gli uffici comunali la richiesta di Nulla osta per opere edilizie per la realizzazione di una nuova casa in via Vittor Pisani, quella che sarebbe diventato il civico 19. Così è descritta, probabilmente dallo stesso ing. Paolo Bonzanini incaricato del progetto e della direzione lavori:

“La casa, come risulta dagli annessi tipi, si compone di un corpo doppio di fabbrica in fregio alla via Vittor Pisani, e di un corpo semplice al lato nord della carta unita al precedente. Ambedue questi corpi di fabbrica constano del piano terreno rialzato e di quattro piani superiori. La casa è servita da due scale illuminate direttamente dalla corte, da aperture a balconcini. Gli appartamenti ai diversi piani sono formati da 4 a 6 locali ad eccezione del I° piano superiore che fa due soli appartamenti uno di 9 locali e l’altro di 4. La corte ai lati nord e est è limitata dai due corpi di fabbrica suddetti, mentre ai lati sud ed ovest è limitata dai muri di cinta divisori coi giardini rispettivamente di proprietà Erba e Pirelli”.

Descrizione esauriente, che trascura però qualsiasi tipo di questione architettonica e linguistica per limitarsi a raccontare una mera edilizia di una casa d’affitto, il cui compito era quello di offrire una facciata dignitosa, nel rispetto del decoro urbano, caratteristica della città borghese a cavallo tra il XIX ed il XX secolo. Non che ciò costituisse un problema, anzi; Milano oggi ha sembianze di una città proprio in virtù di quel decoro, che entropicamente si dissolve poco a poco per lasciare posto al… nulla.

La cosa migliore della casa è tuttavia proprio la sua facciata, così semplicemente ignorata dal buon ingegnere: classicamente composta, misurata e serena nella consueta ripartizione euritmica tra pieni e vuoti. Chissà se dietro c’è la mano di qualche ignoto architetto o disegnatore! Oppure no, il buon Bonzanini era bravo anche in quello? La planimetria, forse perché adattata ad un lotto già circondato da costruzioni esistenti, pare decisamente meno riuscita, asimmetrica ed un poco sgraziata – tra l’altro con il corpo di fabbrica semplice nel cortile esposto praticamente a sud.

In ogni caso, la Commissione igienico-edilizia esaminò i disegni il 30 luglio 1903 e li approvò senza alcun problema. Via Vittor Pisani all’epoca era ancora non del tutto edificata; per questa ragione tra il 3 ed il 4 agosto successivo furono consegnati i punti fissi e redatto il consueto verbale: “La linea frontale degli zoccoli di detta costruzione dovrà corrispondere alla retta congiungente le massime sporgenze degli zoccoli delle case laterali, l’una in via Vittor Pisani N. 17, l’altra avente accesso in piazza Andrea Doria N. 1”.

I lavori probabilmente iniziarono nello stesso mese di agosto, se già il 12 dicembre fu fatta richiesta della Prima visita, relativa alle opere in rustico; visita che, beninteso, fu poi effettivamente eseguita un mese dopo, il 14 gennaio 1904, riscontrando però ancora la non completezza dei lavori. Una seconda visita suppletiva, questa volta definitiva, fu pertanto eseguita il 15 febbraio successivo. Si riscontra insomma una abitudine che doveva essere piuttosto diffusa a quel tempo: per accelerare i tempi burocratici, probabilmente si richiedevano le visite con un certo anticipo anche se le opere non erano del tutto o non erano proprio terminate.

La Seconda visita, relativa alle opere al civile, fu invece richiesta il 23 giugno ed eseguita il 20 luglio 1904; mentre la Terza visita, per l’abitabilità, fu richiesta il 18 agosto ed eseguita il 6 ottobre 1904. Poco più di un anno di tempo di lavori è un tempo tutto sommato non brevissimo secondo gli standard dell’epoca, in considerazione del livello “medio” della casa in costruzione.

La vita terrena di Casa Pini terminò i primi anni Sessanta, con la realizzazione della “nuova” via Vittor Pisani: circa sessant’anni, piuttosto poco per una costruzione. In ogni caso essa fu giudicata meritevole di essere inserita tra le facciate più interessanti di Milano nella raccolta “Le costruzioni moderne in Italia”, alla tavola 42 – benché risulti il solo nome dell’ing. Adolfo Pini quale progettista e non si menzioni invece l’ing. Paolo Bonzanini che pure firmò i disegni. E’ probabile che il proprietario ingegnere avesse pertanto comunque svolto un certo ruolo, per così dire, progettuale, affiancandosi o, chissà, forse anche sostituendosi talvolta, al buon Bonzanini.


Il civico 19 si riconosce in questa foto dell’aprile 1961, appena sotto le parole “ragazzi anche” dello striscione. (Archivio Storico Fondazione Fiera Milano).

Gran Cinema Teatro Italia

Il 2 gennaio 1915 la Società Galli Meschia & C., società per l’esercizio di cinematografi e per il commercio “delle films”, con sede in Milano, fece richiesta al riparto IV del Comune di Milano per l’utilizzo dei locali ad uso cinematografo nel fabbricato di via San Giovanni in Conca 9 angolo stessa piazza, in quella che poco più di un anno dopo sarebbe stata battezzata come piazza Giuseppe Missori. Siamo già in piena Prima guerra mondiale, anche se il Regno d’Italia, per qualche mese, ne è ancora fuori – e probabilmente gli eventi bellici furono una delle case dei problemi finanziari da parte della Società, che non riuscì a godere pienamente del proprio bene a quanto pare.

Ma cominciamo con ordine.

I disegni, a firma dell’arch. Cesare Benni, rappresentano solamente la porzione smussata della esistente casa Nobili, con la pianta, sezione e facciata, del piano terreno del fabbricato, tra via e piazza San Giovanni in Conca. Il motivo principale della facciata è la ricca ed elaborata pensilina d’angolo in ferro a protezione degli ingressi al cinematografo, mentre la planimetria tradisce, nonostante l’abilità progettuale, la preesistenza del fabbricato riadattato allo scopo. La sala per gli spettatori sarebbe stata ricavata utilizzando una tettoia già esistente, opportunamente decorata secondo il gusto del tempo. Il resto dei lavori sarebbe consistito in un generale lavoro di riordino del piano terreno, sopprimendo scale ed anditi inutili e regolarizzando, per quanto possibile, la distribuzione interna nei limiti consentiti dalla particolare sagoma irregolare del fabbricato, confinante, come si è accennato, alla chiesa evangelica di San Giovanni in Conca. La Commissione igienico-edilizia comunque esaminò ed approvò il progetto del cinematografo il 1° aprile 1914, con una nota relativa alla regolarità della pensilina.

Il 24 aprile 1914 fu rilasciato, dopo qualche difficoltà burocratica, Nulla osta per opere edilizie relative all’adattamento di locali ad uso cinematografico nel palazzo di proprietà degli eredi Nobili, in via San Giovanni in Conca; si trattava di un bel palazzo ottocentesco, costruito durante la realizzazione di via Carlo Alberto, adiacente alla antica chiesa di San Giovanni in Conca, già mutilata e parzialmente riadattata. 

Nei primissimi giorni di gennaio del 1915 il Gran Cinema Teatro Italia ottenne infine l’abitabilità e già pochi giorni dopo esso era pronto per l’inaugurazione:

“Milano, sempre pronta alle maggiori prove di entusiasmo, di abnegazione, è chiamata ancora una volta a un’opera di patriottismo.

E’ la Dante Alighieri che lancia un appello al gran cuore di Milano e la invita a fare del bene.

Appoggiando l’ardita iniziativa di una giovane e forte Ditta, si è assicurata di consacrare l’apertura del Gran Cinema Teatro Italia, in piazza San Giovanni in Conca, con uno spettacolo inaugurale.

Domani sera, 15 corrente, alle ore 21, parlerà il professore Avancinio Avancini il quale rievocherà con parola alata “I fratelli d’Italia”.

A questa conferenza seguirà la rappresentazione cinematografica della “La Gerla di Papà Martin”, la più perfetta, la più squisita interpretazione del sommo Ermete Novelli che ha saputo profondere tesori della sua arte in questo capolavoro.

Farà seguito un’altra film [sic!] di carattere patriottico, assolutamente inedita sulla quale si mantiene il segreto volendosi che essa costituisca una gradita, inattesa sorpresa. Così il pubblico più eletto di Milano darà sotto gli auspici della Dante al Gran Cinema Teatro “Italia” il battesimo di italianità più puro, battesimo che gli sarà di felice augurio nel cammino della sua vita”.

“Il Gran Cinema Teatro Italia, di piazza S. Giovanni in Conca, inaugurato, come è noto, venerdì sera con una conferenza del prof. Avancinio Avancini a beneficio della “Dante Alighieri”, ha incontrato immediatamente il favore della cittadinanza. Nella sola giornata d’ieri, il Gran Cinema Teatro Italia è stato il ritrovo preferito di ventimila persone, le quali, oltre la signorilità e la bellezza dei locali, hanno assai ammirato le belle cinematografie costituenti il ricco e variato programma.

Oggi si ripeterà “La gerla di papà Martin”, e domani si inizierà un altro capolavoro cinematografico “Il Fornaretto di Venezia””. 

A seguito di una richiesta del Delegato Mandamentale, il 25 gennaio 1916 fu inviata, al posto dei disegni non più reperibili, una fotografia della notevole pensilina in ferro che ornava gli ingressi del Cinema Teatro: eliminato purtroppo il contesto, la foto illustra il piano terreno, da due punti di vista, del Gran Cinema Teatro Italia con una meravigliosa ed elaborata pensilina in ferro che però non corrisponde esattamente ai disegni del marzo 1914. La foto di sguincio ritrae la pensilina vista dalla piazza; le locandine mostrano il film “La Divette del Reggimento”, proiettato da giovedì 16 marzo a venerdì 17 marzo 1916, mentre la foto frontale mostra “Il Grande Veleno” e numerose persone in posa di fronte al fotografo.

Il cinema chiuse nel 1939 per le previste demolizioni che interessarono l’area del quartiere Tre Alberghi e Bottonuto.

(Gran Cinema Teatro Italia, Via San Giovanni in Conca 9 – α 1914 / ✝︎ 1938)