Regolamenti Edilizi

“Tu Milano ascolta. Tu non hai fiume che ti lavi, e se tu non resti la più civile, diventerai presto la più villana delle città. Tu non sei consolata da vaghi prospetti suburbani, da sublimi orizzonti che aiutino l’anima a guardar la vita dall’alto: e però se non conserverai il santuario delle arti belle, se non sarai un ateneo di buoni studi, se non ti farai officina di sapienti industrie, diventerai un cascinale celtico soffocato dalle sterpaglie e dagli spineti: tu sei in mezzo a una natura sonnecchiosa e uniforme, e se non serberai viva la fiamma delle grandi tradizioni e dei grandi sagrifici, le nebbie della bassa ti filtreranno nelle midolle e ti annacqueranno il cervello”[1].

Le città sono fatte di pietre e mattoni – così amava ripetere sovente un mio professore universitario, omettendo volutamente altri materiali come ferro e vetro; il panorama urbano a cui eravamo abituati dalla nostra infanzia muta, con lentezza, forse, ma inesorabilmente: quel campo inedificiato per lustri adesso ospita una moderna palazzina, mentre la villetta degli anni Venti all’angolo tra due strade non esiste più, così come quello stabilimento nel quale entravano ogni giorno decine di persone. Poco a poco testimonianze preziose di un passato non molto lontano – cosa volete che siano cento anni, poco più di una vita media umana? – ma di fatto remotissimo scompaiono per sempre, dissolte e gettate nelle discariche.

Lo studio dei processi edilizi di una città – costruzioni, demolizioni e sostituzioni – non può realizzarsi senza la conoscenza delle normative che si sono susseguite nel corso degli anni, giacché esse determinano spesso i tempi ed i modi con cui essi trovano la loro attuazione ed il loro compimento. Per questo motivo è necessario accennare almeno sommariamente ai due Regolamenti Edilizi che per molti decenni hanno indirizzato le costruzioni milanesi: il primo, del 17 maggio 1877, ed il secondo, del 22 maggio 1889. La prima e più importante questione per gli storici e cronisti della storia edilizia riguarda la prescrizione contenuta nell’art. 68 del Regolamento del 1889, che altro non era se non un rimpasto degli art. 51, 52 e 53 del precedente Regolamento del 1877, con la quale si istituivano le “visite” regolamentari da parte di un incaricato del Municipio nei cantieri di nuova costruzione o ristrutturazione; visite distinte in tre periodi ed eseguite dietro domanda da parte della proprietà:

“La prima, quando chi costruisce o riforma sostanzialmente una casa o parte di casa, dopo la costruzione dei muri greggi (in rustico) del tetto, del gocciolatoio o sottogrondio, delle volte di cantina, delle scale e delle impalcature tra piano e piano, vuole che sia constatata l’epoca dell’avvenuta costruzione. La seconda, dopo eseguiti i pavimenti, gli intonaci, i soppalchi incalcinati (plafoni), le volte dei locali abitati e le tramezze di mattoni di quarto e di una testa. La terza quando siano scorsi almeno sei mesi dlla seconda vsita e tutte le opere siano finite. Le prime due visite si eseguiscono dall’Ufficio Tecnico. La terza dalla Commissione tecnica sanitaria municipale e, in coerenza al giudizio di quest’ultima, la Giunta delibera relativamente al permesso di abitare”.

Non è ben chiaro lo scopo della doppia visita, al rustico e civile, a meno di individuare immediatamente eventuali difformità tra progetto approvato e sua realizzazione, mentre ben chiaro appare quello della terza, da eseguirsi almeno sei mesi dopo la seconda, in modo da garantire un perfetto prosciugamento dei locali anche durante i mesi invernali[2]. Il successivo art. 69 concesse comunque la possibilità di modificare i tempi previsti tra una visita e l’altra qualora il tipo di costruzione o la tecnologia utilizzata avesse permesso “un perfetto asciugamento dell’edificio” comunque a giudizio della Commissione tecnico-sanitaria: si introdusse insomma un certo grado di discrezionalità aperto verso le possibilità che le nuove tecnologie avrebbero presumibilmente permesso. In ogni caso, è proprio grazie ai verbali delle tre visite, conservati nei fascicoli presso l’Archivio Ornato Fabbriche, è possibile pertanto ricostruire le vicende edilizie dei vari fabbricati, l’inizio dei lavori, la fine dei lavori al rustico e quelle al civile, sino alla definitiva abitabilità, con eventuali problemi e ritardi.

Il Regolamento Edilizio, sia nella forma del 1877, sia in quella del 1889, intese disciplinare[3] sia le altezze dei nuovi fabbricati, in relazione alle larghezze delle pubbliche vie, sia in relazione al tipo e forma di cortile interno, che poteva essere completamente o parzialmente chiuso nel lotto di proprietà. L’altezza del fabbricato di conseguenza dipendeva dalla larghezza della strada prospettante e dall’altezza minima dei locali interni, che era notevolmente diversa da quella oggi comunemente prevista: l’art. 79 del Reg. Ed. del 1889 ad esempio prescriveva un piano terreno di altezza minima netta pari a 4 metri e di metri 3 per quelli successivi, ad eccezione del penultimo sotto la soffitta, per il quale era sufficiente una altezza di 2,5 metri. Tale disposizione può apparire stravagante agli occhi moderni, abituati ad altezze inferiori e apparentemente più “oggettive” e “scientifiche”; tuttavia non è possibile negare la realtà che un piano terreno abbia bisogno di altezze superiori per compensare almeno in parte la propria sfavorevole posizione: nell’impossibilità di voler disciplinare le costruzioni secondo l’orientamento solare e secondo le ombre che si generano durante le varie stagioni, tale generica indicazione non pare più così stravagante come ad una prima frettolosa impressione[4]. Tuttavia l’assenza di collegamenti con le superfici finestrate – che avrebbero dovuto essere opportunamente relazionate agli ambienti, come accade oggi, rese in gran parte vana le intenzioni dei redattori di tale Regolamento.

Per quanto possa sembrare strano, fino al Regolamento Edilizio del 17 maggio 1877 ad esempio non vi era alcuna prescrizione intorno alla ventilazione dei locali considerati abitabili e fu necessario attendere addirittura l’art. 56 del successivo Regolamento del 22 maggio 1889 per trovare menzione intorno alla questione della loro illuminazione; tuttavia la distinzione, del tutto speciosa, tra cortili e cavedi – più grandi i primi[5], destinati ai locali di abitazione, più piccoli i secondi, per accessori e servizi[6] – rese possibile la costruzione di fabbricati scarsamente illuminati ed aerati, esteticamente ed igienicamente molto discutibili, giacché consentivano la ventilazione di cucine e servizi igienici in pozzi che ben presto si dimostravano essere malsani. In assenza di cortili i locali abitabili avrebbero invece dovuto presentare delle foratura nelle imposte delle porte di accesso – presumibilmente verso le scale o passaggi comuni – soluzione piuttosto singolare anche per gli standard dell’epoca.

Si noti che comunque non vi siano ancora calcoli numerici da eseguirsi per dimostrare la ventilazione e la illuminazione dei locali abitabili; la tendenza a limitare ad un ammonimento verbale le varie prescrizioni si ritrova anche nel successivo art. 63, che indica la necessità di realizzare un numero “conveniente” di latrine per i nuovi fabbricati: quante potevano essere le latrine “convenienti”? La risposta data dall’edilizia milanese destinata ai ceti sociali più bassi alla vaghezza di questa prescrizione, fu naturalmente “una” latrina per ogni piano servito dalla ringhiera: questo spesso significava una latrina destinata a decine e decine di persone.

Di un certo interesse è anche l’art. 80 del Regolamento del 1889, compilato ex novo in quanto non presente nel 1877, che riguardava l’obbligo di realizzare ambienti cantinati a volte con travetti in ferro, in modo da ovviare alla naturale umidità presente nel suolo, sopratutto nel milanese, che rendeva malsane le abitazioni costruite nel sottosuolo. In questo modo si permise la abitabilità dei soli locali realizzati  almeno alla quota del piano terreno con sottostante piano cantinato – anche se spesso si scelse di ventilare ed illuminare anche questi ambienti, rialzandoli un poco dal livello stradale.

Ancora, fino al 1889 non vi era alcuna prescrizione intorno alla pavimentazione dei locali adibiti a scuderie e stalle: ciò comportava inevitabilmente un certo grado di “inquinamento” del terreno che naturalmente assorbiva tutte le sostanze organiche degli animali ivi destinati; considerando la rilevanza che i cavalli potevano avere per il trasporto pubblico e privato ancora fino ai primi decenni del XX secolo si può facilmente valutare la gravità delle conseguenze di tale approccio alla questione. Fu solo con l’art. 67 del Regolamento del 1889 che si cercò, parzialmente, di rimediare a tale situazione, prescrivendo l’obbligo di pavimentare le scuderie – ma senza specificare il tipo di pavimento e sopratutto trascurando la questione della permeabilità dei vari pavimenti, che avrebbero dovuto essere opportunamente impermeabili in modo da incanalare in fognature o pozzi neri le deiezioni equine.


[1]Cesare Correnti citato da Luca Beltrami ne “Per il monumento a Cesare Correnti”, nel “Corriere della Sera” del 30-31 luglio 1900. La citazione, leggermente modificata, era inserita ne “La vita nuova”: “E tu Milano madre mia lasciatelo dire in ginocchio te lo dirò piangendo e tu batti ma ascolta. Tu non hai fiume che ti lavi e se tu non resti la più civile diventerai presto la più villana delle città. Tu non sei consolata da vaghi prospetti suburbani da sublimi orizzonti che ajutino l anima a guardar la vita dall’alto e però se non conserverai il santuario delle arti belle se non sarai un ateneo di buoni studii se non ti farai officina di sapienti industrie diventerai un cascinale celtico soffocato dalle siepaglie e dagli spineti. Tu sei in mezzo a una natura sonnacchiosa e uniforme e però se non serberai viva la fiamma delle grandi tradizioni e dei grandi sagrificii le nebbie della bassa ti filtreranno nelle midolle e ti annacqueranno il cervello Tu non sei il beniamino della Fortuna o Milano! Guai a te madre mia se non t incoroni di virtù!”.

[2]A riguardo è interessante osservare come il precedente Regolamento prevedesse solamente tre mesi di tempo tra la seconda e la terza visita. In ogni caso, alcune norme del periodo pre-unitario prevedevano l’inabitabilità dai sei ai diciotto mesi dei nuovi locali. L’arch. Luigi Broggi e l’ing. Achille Manfredini ritenevano ad un tempo che tale periodo di sei mesi fosse eccessivo e comunque in sè non in grado di garantire l’abitabilità dei locali stessi.

[3]Art. 75 del Regolamento Edilizio del 22 maggio 1889. Una tabella prevedeva le seguenti altezze: massimo 14 metri e tre piani per strade larghe meno di 9 metri; 16 metri e quattro piani per strade larghe da 9 a 12 metri e così via sino alla massima altezza possibile di 23 metri e sei piani per strade di larghezza superiore a 20 metri.

[4]Pare ovvio infatti che la questione della luce e della posizione del sole, oltre che dalla larghezza delle strade, avrebbe dovuto costituire già all’epoca una linea di guida per la realizzazione di ambient correttamente illuminati. Sarebbe stato possibile evitare prospetti interamente illuminati da nord o da nord-est, ad esempio, e favorire portici verso sud e sud-ovest e così via.

[5]La dimensione dei cortili era disciplinata dall’art. 58, pari ad almeno 1/8 del totale delle superfici verticali, se l’altezza media era pari o inferiore a 20 metri, o 1/6 se superiore; tale calcolo tuttavia sarebbe tuttavia entrato in contrasto con l’art. 81 del Regolamento d’Igiene del successivo 9 ottobre 1889, che prescriveva un rapporto minimo di 1/4. Comunque era prevista una certa discrezionalità anche da parte dell’Autorità Municipale in base ai casi specifici particolari.

[6]La dimensione dei cavedi era disciplinata da una tabella dell’art. 59: dai 4 agli 8 mq in base all’altezza ed al lato minore.

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